Avvento Manzoniano

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14 2020 / Eventi

Avvento Manzoniano

 

Avvento Manzoniano
I.
 
Trascorso novembre, il mese manzoniano, ed è trascorso in silenzio, per autotutela: erano decenni che non esondavano tante parole. Certo per necessità. Perché gli interrogativi erano e rimangono molti. Si proporranno agli amici di Casa Manzoni alcune riflessioni. Ecco la prima.
Non abbiamo iterato l’avvento manzoniano alle Gallerie d’Italia: non abbiamo rinnovato in collaborazione con Giovanni Morale, quei momenti di intensità culturale, che lo scorso anno vedevano anzi ascoltavano da Anna Nogara, di fronte alle Grazie di Canova, la poesia del sentimento femminile in Ugo Foscolo e in Alessandro Manzoni, ricordando, risalendo nel tempo, Paola Pitagora e Giacomo Poretti.
Questo anno era doveroso ripercorrere Il Conte di Carmagnola con la parola di Manzoni, negli spazi dove ancora guardano le figure e i colori di Hayez.
Avremmo ascoltato, dalla voce di un sensibile interprete, il coro sulla battaglia di Maclodio, sospeso a quel verbo topico: «S’ode», con i localizzatori in eco chiasmatica «a destra … a sinistra», in uno spazio amplissimo, vuoto: una sequenza filmica dove emergono solo, in assenza di figure, dei suoni e dei rumori: nella progressione di avvicinamento a quella lezione che attende all’uscita del tunnel espressivo, dove si affacciano i combattenti, non come «i nostri», con volti di fantasmi.
Il coro del Carmagnola, con quella sua data, 1819, la stessa della Morale Cattolica, non era leggibile per i contemporanei, ed è rimasto tale a lungo per molti posteri. Alle scuole superiori si affrontava la non facile canzone All’Italia del conte Leopardi, e si memorizzava, per sempre, quel settenario più quell’endecasillabo: «Simonide salia, / guardando l'etra e la marina e il suolo»: un primo sguardo a un orizzonte di infinito. Non eravamo preparati a comprendere, e neppure a interrogarci sul «sacrilego», sui «cori omicidi / che abbomina il Ciel»: e tanto meno a registrare come il precedente «cuori», ancora inconsapevole del monottongo fiorentino, per impulso non solo parafonico, entri in una chiesa e diventi voce corale.
Manzoni sapeva di avere scritto un testo oltre lo status politico e oltre la Chiesa della Restaurazione: non pensava che i contemporanei, non lo avrebbero capito: ne era certa la censura austriaca.
Il 1o ottobre la famiglia Manzoni era a Parigi, quando in Italia stava per essere decretata la fine del «Conciliatore», l’organo del circolo supraromantico che trovava in via Morone la sede ispiratrice.
La tragedia del conte di Carmagnola attendeva i primi giorni del 1820, un due secoli fa che sembra ieri, per uscire dai torchi prima di Giulio poi di Vincenzo Ferrario, lo stampatore del soppresso foglio azzurro. Come in tutte le opere a stampa di Manzoni, si nascondevano minime imperfezioni tipografiche, cui rimediava a penna qualche accorto lettore e anche, meno rapidamente, il tipografo. Questa tragedia, «letta» da Goethe, e tradotta in francese da Claude Fauriel, era destinata a clamorosi insuccessi sulle scene. Da leggersi, non da rappresentarsi, suggerirà a distanza l’autore.
Va ricordata la messa in scena di Luigi Domeniconi al Teatro Argentina di Roma, nel carnevale 1838, se non altro per i due sonetti, uno in italiano, un secondo in romanesco, di Giuseppe Gioachino Belli, un altissimo poeta da affiancare ai nostri più grandi classici, un protagonista dell’Ottocento italiano da interpretare in prospettiva manzoniana. Si prelevano da «Il Corriere dei Teatri» del 17 febbraio le righe conclusive dell’articolo dedicato alla messinscena e interpretazione di Luigi Domeniconi, e al commento poetico del Belli che bolla le insidie della Corte viscontea, l’impietoso Consiglio dei Dieci, l’angoscia del Conte, non per sé, ma per la sofferenza della moglie Antonietta e della figlia Matilde.
Il Carmagnola così ammirato dalle sane menti, attentamente ascoltato dagli accessibili alle sue peregrine bellezze, e rispettato da tutti sino all’ultimo verso, ebbe poscia la biliosa disapprovazione di quelli che tremano alla presenza del loro nemico, e diventano audaci alla sua partenza. Vi fu nondimeno colà uno dei rarissimi viventi poeti che volle anche quella misera audacia repressa, senza far conto di essa, e rivolgendosi soltanto all’esimio interprete di quell’opera immortale coi seguenti versi:
A Luigi Domeniconi / per la recita / del Conte di Carmagnola / Tragedia / di Alessandro Manzoni / 
Sonetto
Gli alti sensi e le belliche fortune
Di Lui, che, prima insidiato in Corte
Dalla biscia d’Insubria, ebbe poi morte
Dal superbo leon delle lagune;
 
Il vil sospetto e l’arti arcane e torte
Delle dieci alme di pietà digiune,
E il tradimento da vendetta immune, 
E l’angoscia del padre e del consorte:
 
Tanto nel suo Signor di Carmagnola
Fidò a pagine eterne Italo vero
Lo cui gran Nome per la terra vola.
 
E tu, ardito Luigi, e tu primiero
Ce lo scolpisti in sen con la parola
Tutta contemperata al Suo pensiero.
 
  G. G. Belli
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