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06 ottobre 2020 / Eventi

7 ottobre La Vendemmia di Monte Napoleone District a Casa Manzoni

 

La vendemmia nel distretto del Monte di Napoleone convoca anzitutto prima in cattedra poi alle tavole e ai banchi il Meneghino di quel Carlo Porta che presso l’imperiale istituto bancario prestava la propria opera.
Il grande poeta milanese, di cui il prossimo 5 gennaio si ricorderanno i duecento anni dal prematuro suo addio alla Milano risorgimentale, riconsegna ai nostri raffinati, forse troppo, palati una lunga lista di vini lombardi, quelli che nel 1810 e nel 1815 proponeva al rappresentante del popolo milanese per due brindes, uno in onore di Napoleone, un secondo, previa rimozione del primo, a festeggiare Francesco d’Asburgo, in visita nella Milano libera dai «paracar».
La lombardia vinicola, per la verità storica, aveva visto liricizzati, e come, i vigneti di San Colombano al Lambro, da Francesco Redi, nel suo fortunatissimo Bacco in Toscana: meno celebri penne lombarde si sentiranno in dovere di chiamare il dio dei pampini a visitare tutte le aree a lui consacrate nella regione, per citare subito Alessandro Manzoni, «ove natura a sé medesma piace».
Che il vino fosse necessario a Milano e dintorni è ampiamente attestato dagli Annali del Duomo, che testimoniano delle donne pronte a placare, e non con l’acqua, la sete di magistri e magutti, e dei carri con botti e navazze inviate in dono da benefattori del contado per rinvigorire questi bravi lavoratori. In Bonvesin, in Galvano Fiamma, nei documenti medievali non mancano uve e terre «vineate», anche in aree varesine o brianzole e di pianura dove oggi la viticoltura fatica a riproporsi.
Che difficoltà si profilassero ai nobili proprietari e signori dei campi è documentato dal trattato sul vino di Carlo Verri, fratello dei più celebri Pietro e Alessandro, e di quel dissipato di Giovanni, padre naturale di un figlio che mai lo volle riconoscere per tale.
 
Questo figlio, come oggi ben noto, si chiamerà Alessandro Manzoni, poeta, romanziere, filosofo, e «fattore di Brusuglio». In tutte le cose, prima di scrivere e di fare, si informava e studiava. Per le viti e per il vino, soprattutto su testi francesi. Prendendo possesso nel 1810 della proprietà di Brusuglio, lasciata da Carlo Imbonati a Giulia Beccaria, si rese conto che in quel clima e su quelle zolle avrebbero potuto meglio allignare vitigni francesi: e ne invia l’elenco a Claude Fauriel, consigliere non solo letterario, assistito dalla più competente Sophie de Condorcet.
Sul proprio impegno di agricoltore, bachicultore, viticultore Manzoni amava ironizzare, stando come sempre a metà del guado, tra il vero e lo scherzoso: si augurava che i suoi successi agricoli gli ottenessero misericordioso perdono per i suoi esercizi – ma lui opta per un altro termine – letterari. Ne sorridevano, con affermazioni non totalmente antifrastiche, Tommaso Grossi e Luigi Rossari:
 
«E gli s’è aggiunta quest’ultima pazzia
di rinnovar gl’italici vigneti,
pronto a dar del caparbio a chicchessia
se al promesso miracol non s’acqueti,
ch’egli un vin vuol spillar da far vergogna
a quelli di Sciampagna e di Borgogna».

 

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