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Del Cordone di San Francesco e di altro

 

 

DEL CORDONE DI SAN FRANCESCO E DI ALTRO
 
Ignazio Baldelli (Civitella d’Arna 26 novembre 1922 - Roma 7 febbraio 2008) è stato e rimane uno dei grandi studiosi della lingua italiana nella sua storia culturale e sociale, in particolare dalla sua Tuscia verso l’area benedettina e francescana del nostro medioevo, nella prospettiva critica, del nostro presente.
Nel 2007 ha raccolto nel volume, dall’invitante titolo dantesco, Non dica Ascesi, ché direbbe corto: studi linguistici su Francesco e il francescanesimo (a cura di F. Santucci e U. Vignuzzi, Porziuncula Edizioni) un saggio del 1974, «San Francesco e Manzoni: realtà e spiritualità nuova e lingua nuova».
Baldelli si vietava la citazione dal sermone giovanile di Manzoni, conosciuto con il titolo vulgato «Della poesia», dove si legge di «tanta fune, / quanta al più pingue figlio di Francesco / cinger potria l’incastigato addome» (vv. 53-55). Il pur precoce libertario e libertino alunno dei padri somaschi e barnabiti non poteva prevedere che qualche decennio più tardi avrebbe messo in bocca a un cappuccino Fermo e Lucia, I, V 10): «E il cordone di San Francesco ha legate altre spade che quella di costui»; e al conte Attilio (ivi, II, VIII 79), una considerazione uguale e diversa sui francescani, almeno su quel frate Cristoforo da Cremona: «Dice… dice che il cordone di San Francesco non ha paura nemmeno degli scettri della terra». Ma il cordone si annoda anche nei Promessi sposi, e Manzoni sembra ricordarsi della impertinenza giovanile, e rimediarvi, a XVIII 53, dove anche il conte Attilio riesce a perfezionarsi: «Questo frate, dicevo io, l'ha sempre col cordone di san Francesco; ma per adoprarlo a proposito, il cordone di san Francesco, non è necessario d'averlo intorno alla pancia».
Ricorda Baldelli come «san Francesco» sia la parola d’ordine consegnata ai tre fuggiaschi per farsi riconoscere dal barcaiuolo ed essere portati all’altra riva: un viaggio per acqua verso la speranza, quanto deluso.
Oggi, che papa Francesco, educato dalla nonna alla conoscenza dei Promessi sposi, è stato ad Assisi, o meglio, per rinominarla con Dante, a «Oriente» («Però chi d'esso loco fa parole, / non dica Ascesi, ché direbbe corto, / ma Oriente, se proprio dir vuole», Paradiso, XI 52-54), si vorrebbe proporre un contatto che potrà sembrare tirato con le corde e non con il cordone, tra Manzoni e il santo di Assisi, eletto patrono l’uno d’Italia, l’altro eleggibile di Lombardia. Rimangono tra i nostri echi scolastici quelle parole: «Laudato si', mi' Signore, per sora nostra matre terra, / la quale ne sustenta et governa, / et produce diversi fructi con coloriti flori et herba»: mirabile il poeta del Cantico delle creature nel climax che anticipa il sostentamento e i frutti, cioè il cibo, sulla considerazione della sovranità della natura, e delle sue bellezze, le più alte e le più umili.
Manzoni ha parlato nel romanzo, storicamente, di una terra desolata dalla carestia, ma ha sempre ritenuto, illuministicamente e cristianamente, che il lavoro, se fedele alla terra, può governare l’agricoltura e dare cibo all’uomo.
Aveva sognato, nel giovanile poemetto sulla libertà rivoluzionaria, la sua Insubria di «ubertosi colli» e di «riviere, / ove Natura a sé medesma piace»ۚ: una Natura, una Terra in amicizia e collaborazione con l’uomo. Deve resistere, con il «Laudatio si’», questo endecasillabo: la regione sua, di Beccaria, dei Verri, e di Carlo Cattaneo, dovrebbe, francescanamente, farne una bandiera, e ‘orientarvi’ un futuro ecologico, sotto quel cielo così bello, così in pace.