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DEL NOSTRO AMICO PORTA

 

Chi ha frugato tra le carte di Alessandro Manzoni, oggi non può non ripensare a una delle sue tante inezie correttive, in un passo del Sentir messa, che ha innescato, e può continuare a farlo, tanti dibattiti. Vi si legge, anche tra le righe, che i milanesi potrebbero inorgoglirsi delle loro voci poetiche dialettali, ma solo in casa propria: l’albagia di possedere una lingua comune, legittima per i fiorentini,

la verrebbe in capo a noi altri milanesi, se una mattina ci sentissimo dire che le commedie del Maggi, le rime del Balestrieri, del nostro amico Porta, del Pellizzoni, sono scritti di lingua.

L’autografo dice che Manzoni, dopo aver scritto «del Porta», prova un sentimento, si sente obbligato a una testimonianza di valore, e aggiunge «nostro amico».
Il tipografo Vincenzo Ferrario apriva l’anno con Il Romanticismo. Sestine in dialetto milanese di Carlo Porta, una lettera poetica indirizzata a «madamm Bibin», che spinge quel «somaro» di Carlo Gherardini alla immediata Risposta di Madama Bibin alle sestine del Signor Carlo Porta, stampata dalla Tipografia di Giuseppe Borsani. Porta inviava il suoi manifesto anticlassico a chi del Romanticismo era ritenuto il rappresentante ufficiale, e vi univa o faceva subito seguire otto sonetti, provocatoriamente ‘antiromantici’, che parodiavano lo stile delle Poesie dedicate nel 1816 da «uno stagionato funzionario austriacante», Pietro Stoppani di Beroldinghen, al reintegrato imperatore Francesco I. I sonetti ‘beroldingheniani’ erano accompagnati da una lettera, «scritta anch’essa in stile goffamente aulico e spropositato» (Isella), con la sottoscrizione  «Umil.mo Servo / Avv.to P. S. de B.». Gaetano Cattaneo ne  scriveva il 2 marzo a Luigi Rossari, studente a quel Collegio Borromeo di Pavia che Manzoni citerà a partire dalla Ventisettana:

E per darti una prova che qui ad ogni tratto v’è qualche motivo di discorrere ti dirò che jeri l’Amico Porta fece capitare nelle mani di Manzoni varj sonetti antiromantici da lui scritti nello stile dell’Avv. Stoppani [di Beroldinghen], uno dei quali era scritto in lode dell’Accattabrighe, l’altro contro Berchet, un terzo contro Breme et sic de cęteris. Ma la testa fina del Manzoni conobbe addirittura di qual inchiostro erano, e rispose tosto, nello stesso stile, il seguente sonetto, che ti trascrivo dall’Originale Autografo, che Porta mi ha dato a leggere.

Lingua mendace che invoca li Dei 
Essendo in suo cuore ateo mitologico, 
Tu credesti ingannare i sensi miei
Con stile affettatamente pedagogico. […]

Proseguiva Cattaneo con la postilla, che introduceva la sola quartina milanese conosciuta di Manzoni: 

Il sonetto è seguito da questo tetrastico meneghinico

On badée che vœur fa de sapiention
El se toeu subet via per on badée,
Ma on omm de coo, che voeur paré mincion
El se mett anca lu in d’on bell cuntée. 

Uno sciocco che vuol fare da sapientone / lo si prende subito per uno sciocco, / ma un uomo con una bella testa, che vuol sembrare minchione / si mette anche lui in un bel pasticcio.

2. Il 6 aprile 1820, il giovedì dopo la pasqua, Alessandro Manzoni, esule dall’ottobre precedente a Parigi, scriveva all’amicissimo Tommaso Grossi delle critiche di Francesco Pezzi alla tragedia Il Conte di Carmagnola, opera di «un poetucolo»: «Che ti dirà dei versi nei quali sono chiamato Bue? … Quale è l’uomo in Milano che vedendosi attaccato e malconcio, se gli si annunziasse che Porta e Grossi prendono le sue parti non si sentirebbe proprio a resuscitare? E il poetucolo dirà a Porta e a Grossi: signori no, non sta bene, non bisogna minchionare il prossimo».
Aveva saputo Manzoni che, come nel marzo dell’anno precedente, Porta era intervenuto in sua difesa con una seconda serie di sonetti antifrastici, in stile beroldingheniano, aperta con un titolo, certo del presunto autore, che solo la reciproca stima poteva approvare con un sorriso:


A Manzoni che meglio si chiamerebbe Bue

Noi tutti i letterati di Milano
che siamo quelli che dà legge al mondo
abbiamo letto con sdegno inumano
la tua Tragedia senza il giusto pondo
e per frenare il torrente malsano
che vuol mandare il buon gusto in profondo
gli andiamo incontro con armata mano
con articolo primo ed il secondo
e il terzo della vera e gran gazzetta
che fa il Pezzi, quell’uomo così famoso
di cui la fama il gran nome trombetta.
Leggili tutti e due, e trema e sappia
che ci vuol altro che un Bue romanticoso
per sconvolgere la nostra poetica prosapia.

A fine luglio il poetucolo rientrava a Milano, con un programma di scrittura ben preciso: una tragedia, che sarà Adelchi, e un romanzo, avviato il 24 aprile 1821, che Ermes Visconti, scrivendone tempestivamente a Victor Cousin il 30, chiamerà di «Fermo e Lucia».
Avrà avuto modo Manzoni di incontrarlo, Carlo Porta, negli ultimi suoi brevi mesi di vita, quando concludeva quel poemetto, così sintonico a chi voleva il rinnovamento della Chiesa, di Meneghin biroeù di ex Monegh? Certo ne avrà parlato con Tommaso Grossi, che «la sera del dì della Madonna» (15 agosto 1820), scriveva a Porta che all’indomani, a Brusuglio, «Farò i tuoi saluti a Manzoni».
E il 14 settembre, da Treviglio, lo pregava: «Salutami se li vedi Visconti, Manzoni, Decristoforis, Berchet, Crippa». Il 4 ottobre era Porta ad accennare a Grossi, ancora a Treviglio, delle polemiche dei classicisti contro gli amici romantici, e parla di altre «fresche ingiurie … contro Manzoni, Torti, e parecchi altri del loro calibro»; e Grossi, rispondendo il 6, potrà scherzare sulla delusa speranza «d’essere bestemmiato insieme col Manzoni, con Visconti, con Torti, con Berchet, e con simile canaglia». A questa data, e con il ritorno autunnale di Grossi a Milano, si interrompe una corrispondenza, che al 5 gennaio 1821 si chiuderà per sempre.
Ne avrà certo parlato, Manzoni, di questa prematura e dolorosa morte, con Luigi Tosi, impegnato a redimere quell’anticlericale giansenista, e a censurarne le poesie. Ne scriveva a Fauriel il 29 gennaio (si cita dalla edizione a cura di Irene Botta, che corregge l’exercer e la possédait) trasmettendo «un petit discours de M.r Grossi qui vous annoncera la perte que nous venons de faire de M.r Porta». E proseguiva:

Son talent admirable, et qui se perfectionnait de jour en jour, et à qui il n’a manqué que de s’exercer dans une langue cultivée pour placer celui qui le possédait absolûment dans les premiers rangs le fait regretter par tous ses concitoyens, le souvenir de ses qualités est pur ses amis une cause de regrets encore plus douloureux.

Che avrebbe detto Carlo Porta, ritrovando molto di suo nella ‘lingua più coltivata’ del Fermo e Lucia? Lo hanno sentito Gadda e Tessa, ne ha criticamente introdotto l’indagine intertestuale Dante Isella, in Porta e Manzoni, Porta in Manzoni. Altri ne tratteranno (si prega, senza rumori) in questo anno bicentenario. Ma è una suggestione che può scorrere in ogni lettore, e forse già si preparava nel collega dei tanti delusi aspiranti alla nomina a cappellano, quando richiamava alla mente dell’erede di quel Meneghin biroeù il sogno dei vili e meccanici:
«Foo el cavalier, vivi d’entrada…»
«Ecco: nessuno è contento a questo mondo: voi stavate bene colla vostra professione, libero, industrioso, col tempo avreste potuto comperarvi un luoghetto vicino al vostro e poi un altro, e a poco a poco vivere d'entrata: ecco che vi salta in capo di ammogliarvi».

(Angelo Stella)