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GUERRA E PACE (ANCHE IN ALESSANDRO MANZONI)

 

Come postilla alle righe già inflitte in due parti su «Europa (e Russia) letteraria», si invita a ripercorrere insieme alcune riflessioni, che periodicamente e ora forse più insistentemente pullulano nella mente dei fedeli manzoniani, su una coppia di opposti tolstoiani: guerra e pace. Sono riflessioni cui invitava il mese di marzo e invita il mese di aprile, quando si ripensi a che cosa hanno significato per Alessandro Manzoni questi due mesi nell’anno 1821. Ma passiamo dai primi moti risorgimentali alle Cinque Giornate.

Il 1848 – non per nulla nella competenza popolare il termine quarantotto è sinonimo di sconquasso – è stato un anno di rivoluzioni, annunciate e compiute, dalla Francia a Vienna, da Venezia a Milano.

Alessandro Manzoni, come sappiamo, utilizza in una lettera il vocabolo rivoluzione per definire e classificare i moti milanesi del marzo e la prima guerra per l’indipendenza. Nell’estate era stampata da Giuseppe Redaelli una plaquette, dal titolo riduttivo di Pochi versi inediti di Alessandro Manzoni, distribuita con il timbro «Gov.o Provv.o Commissione delle offerte»: era in vendita al prezzo di «Una Lira Italiana in favore dei profughi veneti». Vi erano pubblicati due testi poetici ‘risorgimentali’, Marzo 1821 e Il Proclama di Rimini. Frammento di Canzone. Aprile 1815: saranno riediti, nel 1859, liberata la Lombardia, come ultimo fascicolo delle Opere Varie 1845 (non si trovano in tutte le copie).

Manzoni chiamava Dio a vindice della libertà dei popoli, e delle popolazioni: «Dio rigetta la forza straniera; / ogni gente sia libera, e pera / della spada l’iniqua ragion». L’attributo iniqua (che ritroveremo nel romanzo con «l’iniquo potente») suppone qui, come nel Proclama «l’inique spade», che sia giusta la ragione della spada nelle guerre per l’indipendenza nazionale. Era lo stesso Manzoni che aveva scritto «figli tutti d’un solo Riscatto», «i fratelli hanno ucciso i fratelli», e dei «cori omicidi» abominati dal Cielo, e questo Manzoni consacrava con l’aggettivo cristiano la bandiera della vittoria: «la santa vittrice bandiera», Sarà l’aggettivo di celebri interventisti nel 1915, come lo era stato nei secoli per le guerre cristiane contro i vari infedeli (Pio V aveva sconfitto i Turchi a Lepanto «armis et precibus») e tra cristiani delle diverse fedi.

L’ode Marzo 1821 era dedicata alla memoria di «un poeta e soldato della indipendenza germanica … nome caro a tutti i popoli che combattono per difendere o per riconquistare una patria».

Non era affidata alla plaquette una canzone (strutturalmente petrarchesca) che nei contenuti e nella data anticipava di un anno Il Proclama: scritta tra il 22 aprile e il 12 maggio 1814, con titolo Aprile 1814. Mese crudele, avrebbe scritto un grande poeta del Novecento, e crudele lo era stato a Milano, con l’assassinio in piazza San Fedele del ministro delle finanze del Regno Italico Giuseppe Prina (20 aprile). Manzoni aveva, nella tragica circostanza, parlato all’amico Fauriel proprio di revolution, purtroppo degenerata, ma attivata dalla parte migliore della cittadinanza, che auspicava, cacciati i francesi, una Lombardia repubblicana e indipendente.

Anche in questa poesia Dio scendeva in campo, partecipando da partigiano alla guerra e decidendone le sorti a favore degli antinapoleonici: «Dico che Iddio coi ben pugnanti ha vinto». Ha condannato alla sconfitta gli invasori francesi che costringevano i giovani italiani «ad offesa d’innocenti squadre / con cui meglio sarieno abbracciamenti»; e le loro erano bella detestata matribus: «O madri orbate, o spose, a chi crescea / nel sen custode ogni viril portato?».

L’ode del 1821 era dedicata alla memoria di «un poeta e soldato della indipendenza germanica … nome caro a tutti i popoli che combattono per difendere o per riconquistare una patria»: dunque a un uomo morto combattendo contro Napoleone.

Pochi mesi dopo Manzoni dovette scrivere Il Cinque Maggio, lo dovette a sé stesso. Ma «il massimo Fattor» non aveva collocato nella Storia, sulla «cruenta polvere» della terra, quell’uomo, quel «tanto spiro», «quel securo», che aveva per più di un decennio percorso l’Europa con «il lampo dei manipoli / e l’onda dei cavalli»? Non lo aveva segnato dalla «più vasta orma» del suo spirito creatore?

I Promessi sposi raccontano come non si possono cancellare dalla Storia i mali dell’umanità, e la guerra rimaneva un male, come la fame e la peste. Sostengono che l’aggressore è colpevole anche della reazione violenta dell’aggredito: «I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi». Vale anche per gli aggressori.

 

Ma non poteva cancellare un giudizio religiosamente ed eticamente irrevocabile, esteso dalla Morale cattolica oltre i confini storici e geografici italiani ed europei:

 

il sangue d'un uomo solo sparso per mano del suo fratello è troppo per tutti i secoli e per tutta la terra.