Il Centro Nazionale Studi Manzoniani, in occasione della riapertura del Museo e per ricordare i duecento anni dalla morte di Napoleone e dalla composizione de Il Cinque Maggio, ha organizzato nel Salone di conversazione, una narrazione bibliografica dell’ode. Sono esposte alcune delle copie manoscritte, tra cui, l’ultima acquisita grazie al generoso dono di Giuseppe Scalabrino.
La nascita e la diffusione dell’ode Il Cinque Maggio raccontano una storia affascinante, che lascia intravedere, cosa rara quando di tratta di Manzoni, nel contesto della serenità estiva di Brusuglio, giorni di grande eccitazione, anzi di “convulsione”, come testimonierà suo figlio Pietro.
Nel luglio 1821 la famiglia Manzoni si trovava a Brusuglio, per il consueto e lungo soggiorno estivo. Il giorno 17, il fattore, che faceva quasi giornalmente la spola tra Brusuglio e Milano (sono 10 chilometri facilmente percorribili, almeno allora, lungo la strada di Niguarda) portò la «Gazzetta di Milano» del 16, che annunciava la morte di Napoleone. Un comunicato scarno, neutro, già nel titolo (Francia. Parigi 7 luglio) preceduto da altre notizie provenienti dall’Impero Ottomano, dalla Svezia, dalla Germania:
"Jeri si sono ricevuti per via straordinaria i giornali inglesi del 4 corrente: - La morte di Napoleone Bonaparte si è officialmente annunziata – Ecco in quali termini – è sempre la Gazzetta che riporta – il Courier, foglio ministeriale, pubblica la notizia: 'Napoleone Bonaparte non è più: egli morì il 5 maggio alle ore 6 della sera da una malattia di languore che lo riteneva a letto da più di quaranta giorni. Egli chiese che dopo la sua morte, il suo corpo fosse aperto, onde si riconoscesse se la sua malattia fosse uguale a quella che troncò i giorni del padre suo, cioè un cancro nello stomaco. La sezione del cadavere provò infatti ch’egli non erasi ingannato nelle sue conghietture. Napoleone conservò l’uso della mente sino all’estremo giorno, e spirò senza dolore' ".
L’articolo della «Gazzetta di Milano» è traduzione di quello apparso sul «Journal des Debats» del 7 luglio 1821, che a sua volta riportava la notizia dal Courier: il laconico incipit, «Napoleone non è più», richiama immediatamente alle nostre menti il più incisivo passato remoto «Ei fu».
Alessandro stava passeggiando nel parco di Brusuglio con la madre Giulia e la moglie Enrichetta: al leggere la notizia, provò un’emozione così forte che si mise a declamare dei versi della Mascheroniana di Vincenzo Monti dedicati a Napoleone. Entrò in una capanna, situata allora nel giardino: «Voglio scrivere anch’io dei versi intorno a Napoleone». Rientrò in casa, e in due intensi giorni compose Il Cinque maggio, in altri due giorni lo perfezionò.
Nelle Memorie manzoniane di Cristoforo Fabris (ripubblicate più volte insieme ai Colloqui di Niccolò Tommaseo, di Giuseppe Borri e di Ruggiero Bonghi), fonte ricchissima di aneddoti e particolari biografici, si legge:
"Era una sera piovosa d’inverno, nel penultimo anno della sua vita; il cattivo tempo aveva impedito ai suoi più vecchi amici di venire alla conversazione, non eravamo che l’abate Ceroli ed io, e il discorso languiva. Quando mi accadde di citare un verso del secondo canto della Mascheroniana che è quello in cui si descrive una parte delle imprese di Napoleone. Manzoni, pigliando la palla al balzo, continuò a recitarne non so quante terzine. Poi si fermò a un tratto per criticare Monti che aveva sempre bisogno di dire tutto, di non lasciar pensare nulla al lettore da sé. Quindi ci raccontò quello che già si legge nelle sue biografie, cioè che egli si era messo a recitare quello stesso brano della Mascheroniana, passeggiando con sua madre e sua moglie per il giardino di Brusuglio, quando ebbe l’annunzio della morte di Napoleone, e che gli venne così voglia di scrivere anche lui una poesia intorno all’uomo fatale, per cui ritornò in casa e si mise al lavoro. «Quelli sono momenti – egli ci diceva, - di scrivere i versi, quando ve li sentite nascere sotto i piedi»". L’autografo, dimostra l’impeto della scrittura e le tensioni della correzione.
Il racconto di Fabris si integra con le testimonianze dei più abituali frequentatori del salotto di via Morone. Il figlio Pietro (aveva allora otto anni) ricordava che il padre sembrava esaltato e quasi fuori di sé dall’entusiasmo, e che la madre Enrichetta aveva allontanato tutti i figli (allora erano ‘solo’ cinque): «Lasciate stare il papà, che ha tanto da fare»: lei si era seduta al pianoforte per due giorni continui, perché la musica accompagnasse l’ispirazione.
Agli amici della «Sala Rossa» Manzoni ha testimoniato come l’ode poté essere divulgata nonostante il divieto del Governo austriaco:
"Son ricorso a un artifizio. Prevedendo la proibizione della censura austriaca, ne ho fatto fare due copie al mio fattore, che aveva una bella calligrafia, e poi le ho presentate tutte e due alla Censura, giacché era una antica legge, ora andata in disuso, che si dovessero presentare due copie di ogni manoscritto da pubblicarsi. Ho sperato, come infatti avvenne, che una delle copie mi sarebbe stata restituita col divieto della pubblicazione, e l’altra sarebbe rimasta in mano di qualche impiegato della Censura, che l’avrebbe poi fatta vedere. Così fu; e per quindici giorni Il Cinque Maggio, uscito dalle mani di questo impiegato, girò manoscritto per Milano, e quindi fu portato a Lugano, dove venne stampato; e di là andò in giro per tutto il mondo".
Le copie manoscritte si moltiplicarono passando di mano in mano. Manzoni scriveva il 16 ottobre, tre soli mesi dopo la stesura dell’ode, all’amico Giambattista Pagani a Brescia (il compagno di collegio, al quale Alessandro affidò l’autografo del Trionfo della libertà):
"Quanto alla copia ricorretta che mi chiedi, devo con mio sommo dispiacere negare a me stesso il bene di farti cosa grata: poiché essendo l’ode stata rifiutata dalla censura, io mi sono proposto di non darne copia, e già ho dovuto negarla ad amici e a congiunti strettissimi".
E un mese dopo, il 16 novembre, sempre al Pagani che doveva essersene procurata una copia ‘clandestina’ e poco corretta:
"Nelle lezioni in cui tu hai trovato varietà, ecco dunque le mie: Stette la spoglia immemore – Vergin di servo encomio – Più vasta orma – Serve pensando - Prode rimote – E il lampo dei manipoli – Che più superba altezza. Veggio che più vasta orma è espressione viziosa, poiché manca il termine comparativo, ed il senso non è perfettamente chiaro: si vasta sarebbe più grammaticale, ma sarebbe ancor più lungi del senso che ho voluto, e non saputo esprimere".
A Lugano l’ode uscì presso la tipografia di Francesco Veladini, nella versione in esametri latini firmata da Erifante Eritense, pseudonimo di Pietro Soletti di Oderzo. Il volumetto edito senza data, ma uscito sul finire del 1829, si apre pubblicando a mo’ di premessa la lettera di Manzoni al traduttore del 20 giugno 1822: Manzoni ringraziava, come dimostra Ireneo Sanesi, della copia manoscritta della traduzione, non del volumetto a stampa.
La prima edizione italiana veniva stampata ‘fuori confine’, a Torino, nel 1823, presso l’editore Marietti, in coda agli Inni Sacri, in un opuscolo dal titolo Cinque Inni Sacri e un’Ode di Alessandro Manzoni Milanese, e subito ristampata, con nuove aggiunte, nel 1824: scrive l’editore Giacinto Marietti:
"L’edizione, che già pubblicai di alcune Odi ed Inni dell’esimio poeta signor Manzoni, fu con tanto favore accolta e giustamente apprezzata, che, trovandosi quasi interamente esaurita, mi si rendeva impossibile di soddisfare alle frequenti domande che giornalmente ne ricevevo".
L’ode venne fatta conoscere in Europa dalla tempestiva traduzione Goethe (1822). Un volume a cura di Carlo Attilio Meschia, uscito nel 1883 a Foligno, raccoglieva ventisette traduzioni: in latino (6), in francese (3), in spagnolo (7), in catalano), in tedesco (8), in inglese (1), in portoghese (2), una delle quali di Dom Pedro de Alcantara, imperatore del Brasile (1871).
In Italia venne riedita a Torino, a Udine, a Napoli, a Firenze (da Tommaseo), ma si dovrà aspettare l’uscita dell’ultima dispensa delle Opere varie (1855 per avere un testo approvato da Manzoni.
Non mancarono – e Manzoni non solo se le attendeva, ma se le augurava – le voci critiche.
Fu imputato a Manzoni di aver scritto un’ode senza citare il nome della persona celebrata, ad altri non piacque l’invocazione alla Fede della penultima strofa (diffusa in lezione diversa da quella che noi oggi conosciamo), qualcuno lo accusò di aver usato termini obsoleti o poco raffinati come il sovvenir o l’espressione il disonor del Golgota.
Manzoni raccontava a Raffaele Masi (frequentatore del salotto di casa Manzoni negli ultimi anni, quando era preside al Liceo Beccaria di Milano):
"Chi crederebbe che nel Cinque Maggio più dell’Ei fu mi sorrise per qualche tempo Ei non è più, e che a Ei si nomò volevo mettere Disse, son qui? E rideva – aggiunge il Masi – di tutto cuore nel ricordarlo.
Cesare Cantù riporta quanto diceva Manzoni a proposito di sovvenir:
"Sovvenir è una brutta parola, che non va né in prosa né in verso. Ne fremerebbe il berretto del padre Cesari, [suo professore] che mi consigliava d’imparare a scrivere italiano. Dispiaceva anche a me; ma dopo i tre giorni, per così dire, di convulsione, in cui ho composto quella corbelleria, mi sentivo così spossato da non bramare che di uscirne; e non sovvenendomi di meglio, lasciai il sovvenire. [si noti l’ironia] Così la mandai a Bellisomi [il censore], che venne a pregarmi di non stamparla. E stampata non l’ho vista se non adesso con una traduzione latina. Se poi sia vera gloria lo direte voi ai posteri".
Quanto al disonor del Golgota avrebbero dovuto conoscere i critici la lettera di Manzoni al già ricordato amico Giovan Battista Pagani, del 15 novembre 1821, un mese dopo rispetto a quella sopracitata:
"è imitato dall’improperium Christi, e dall’altro stultitiam crucis di S. Paolo: i grandi predicatori francesi gettano più d’una volta nei loro discorsi l’opprobre de la croix, senz’altro temperamento, perché s’intenda che è disonore, obbrobrio, improperio agli occhi del mondo".
A Jean Baptiste de Montgrand, da Brusuglio, 30 luglio 1838:
[tradotto dal francese] "Per il disonor del Golgota, io ho realmente voluto dire: la santa ignominia della Croce; ma non ho saputo dirlo. Signore, voi vedete che la mia frase era, o voleva essere, una imitazione di quelle conosciute di San Paolo: Christum crucifixum, gentibus stultitiam, Improperium Christi".
E agli alunni del Seminario Vescovile di Trento che gli avevano scritto chiedendo spiegazioni, il 10 maggio 1845:
"Pregiatissimi Signori, un’eccessiva indulgenza non ha permesso alle Signorie Loro di rammentarsi che ciò che non si fa intendere, non merita d’essere inteso. Nello sciagurato verso, di cui mi chiedono così gentilmente la spiegazione, io ho voluto, e non ho saputo, esprimere l’improperium Christi dell’Apostolo".
Ma l’aneddoto forse più famoso e conosciuto che aiuta a comprendere non solo un verso ma lo spirito del Cinque Maggio è narrato da Antonio Stoppani nel suo volume I primi anni di A. Manzoni:
"Il giorno 14 giugno del 1800 Napoleone era vincitore a Marengo. Il 17 entrò in Milano. Gran parte dell’Italia era in festa: Milano in delirio. Vi erano però anche di quelli che non volevano saperne di quelle baldorie … Il gentil sesso è poi sempre il più vivace nelle sue manifestazioni d’odio e d’amore. Ecco come il primo Console sarà venuto facilmente a sapere che la contessa Cicognara di Bologna, la quale allora si trovava a Milano, era forse la più ardente delle sue nemiche. Una sera che il teatro alla Scala era onorato dell’intervento del Primo Console, il giovinetto di quindici anni, stava nel palco della contessa. In quella sera Napoleone parve che volesse sfidare e punire l’antipatia della contessa, sicché tenne ostinatamente gli occhi fissi a quel palco, che pareva volesse fulminarla. Il Manzoni incantucciato presso la vittima, non poté mai staccare i suoi occhi dall’eroe. ‘Che occhi!’ diceva egli, parlandone una volta ad un amico ne’ suoi ultimi anni, ‘che occhi aveva quell’uomo!’ ‘Allora sono quegli occhi – disse l’amico celiando – che le hanno dettato quel verso: ‘Chinati i rai fulminei’. ‘Proprio così – rispose il Manzoni – proprio così’ ".
Mi piace chiudere con le folgoranti parole di Francesco De Sanctis (volume II Storia della Letteratura italiana):
"Sono nove strofe [di fatto sono 18, ma in alcune edizioni la strofa è doppia] di cui ciascuna per la vastità della prospettiva è quasi un piccolo mondo, e te ne viene una impressione come da una piramide. A ciascuna strofa la statua muta di prospetto, ed è sempre colossale. L’occhio profondo e rapido dell’ispirazione divora gli spazii, aggruppa gli anni, fonde gli avvenimenti, ti dà l’illusione dell’infinito. Le proporzioni sono ingrandite da un lavoro tutto di prospettiva nella maggior chiarezza e semplicità dell’espressione. Le immagini, le impressioni, i sentimenti, le forme, tra quelle vastità d’orizzonti ingrandiscono anche loro, acquistano audacia di colori e di dimensioni. Trovi condensata la vita del grande uomo nelle sue geste, nella sua intimità, nella sua azione storica, nei suoi effetti sui contemporanei, nella sua solitudine pensosa: immensa sintesi, dove precipitano gli avvenimenti e i secoli, come incalzati e attratti da una forza superiore, in quegli sdruccioli accavallantisi, appena frenati dalle rime". (Jone Riva)