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La peste di Milano del 1630

Riproporre la prima traduzione italiana integrale del De peste di Giuseppe Ripamonti, che affiancava il testo latino nell’edizione del Centro Manzoniano del 2009, risponde a un obbligo civile, perché invita e aiuta a riflettere sulle «occorrenze», per evocare uno stimolante vocabolo dello «Scrittore degli scrittori», che uniscono la storia della Lombardia spagnola al comune lungo presente pandemico.
Ripamonti, istoriografo di Stato, affidava al suo «bel latino», lingua imperitura della classicità, il racconto di fatti di cui era stato testimone, documentandoli anche su appunti di un esemplare cardinale Borromeo, su gli edicta dei governatori («gride» necessarie nel secolo XVI quanto i DPCM nel XXI), sui pareri dei medici, sulle voci e le urla del popolo-plebe, con severa analisi degli errori, tormentata escussione dei dubbi, in una desolata rivisitazione della devastazione sociale e della disperazione degli umili.
Leggendo La peste di Milano del 1630 si riascoltano i «fischj» e gli insulti di chi negava la peste, si rimuove lo sguardo dai cadaveri, si soffre una decadenza civile, che si trasformerebbe in catastrofe morale, se non fosse ricomposta da atti di solidarietà e di coraggioso quanto silenzioso eroismo.
Giuseppe Ripamonti è stato e rimane, tra i vari cronisti, lo storico della peste che devastò Milano nel biennio 1629-1630. È lui che ha stimolato Manzoni, ispirato interprete del dramma politico del Carmagnola e di Adelchi, e catecumeno di una Chiesa «madre dei santi», a collocare nel tragico quadro di una intera “nazione” flagellata dalle tre furie pagane e bibliche, la fame, la guerra, la peste, presente ancora la nefasta ombra di una colonna infame, l’educazione sociale dei rappresentanti della classe popolana, e l’estrema chiamata della Provvidenza a correggere i giorni a venire della Storia.

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«… Ripamonti, uomo, che in molti punti liberandosi, e segregandosi dalla opinione publica dei suoi tempi, volse la mira delle sue osservazioni alle cose appunto che nessuno, o quasi nessuno avvertiva, … fu solo a discernere e a dire molte verità, e fece intendere che molte ancora ne dissimulava, molte ne indeboliva per non irritare il giudizio publico, il quale, come traspare chiaramente dalla sua storia, gli faceva una gran paura e una gran compassione nel tempo stesso. … i magistrati, tutti i potenti, ingolfati in ispeculazioni politiche, divagati e avviluppati colla mente nei segreti delle corti, per arzigogolare quale dei principi, quale dei re stranieri potesse essere il capo della trama, non pensavano a quello che era da provvedersi nelle urgenti congiunture della peste; e spaventati poi dalla vastità supposta, e dalla oscurità stessa delle insidie si abbandonavano sempre più a quella stanca trascuratezza che è compagna della disperazione.»
(A. Manzoni, Fermo e Lucia, IV, IV 85-86)