POSTILLA MANZONIANA (FORSE SPURIA) IN MARGINE AL CONVEGNO ASLI
L’abbé Grégoire pensava che l’educazione del popolo esigesse lo sradicamento dei dialetti francesi, e il suo umile discepolo si è provocatoriamente dichiarato pronto a far guerra ai dialetti italiani, anche delle province toscane, sicuro del suo milanese più che del suo italiano.
Avrei dovuto partecipare ai convegni sui vocabolari/dizionari dei dialetti italiani promossi, nella città che fu mia come a Pisa, in ascolto, non ultimo tra «cotanto senno» linguistico.
Nella mia pur incompresa Relazione al ministro Broglio Dell’unità della lingua, ho scritto che «i vocabolari di diversi idiomi … quantunque composti ognuno da un uomo solo» raccolgono i vocaboli di un uso vivo, vocaboli cioè che ai diversi probi autori «erano serviti in tutte le occorrenze della vita a esprimere, con un effetto quasi sempre sicuro, ogni suo concetto».
E ne ho citati «alcuni notabilmente copiosi, come il veneziano del Boerio, il milanese del Cherubini, il siciliano del Pasqualino, il sardo del Porru, il bolognese del Ferrari, il romagnolo del Morri»: quest’ultimo (per altro del 1840) non era citato nella minuta autografa della Relazione, e neppure nella redazione sottoposta all’approvazione dell’amico Ministro (che ne faceva dono, spero non troppo sgradito, al principe Umberto e a Margherita, per le loro nozze): è lì però che ho corretto il quantificatore abbastanza, prima con assai poi con il definitivo notabilmente.
Dei vocabolari citati, nella mia biblioteca, trionfa il Cherubini, nelle due edizioni, in più copie variamente postillate: dalle postille selettive dei fiorentini Cioni e Niccolini alle sistematiche dei compagni di strada Grossi e Rossari, a parte quelle della signora Luti e di Teresa, che sapevano dire la loro, una forse anche senza essere interpellata. Sono presenti in via Morone il Porru e il Ferrari, mancano gli altri. Li cito, perché li conoscevo e li custodivo, a fianco di altri rimasti nella mia biblioteca, il Nannini per il ferrarese, il Melchiori per il bresciano, il Peschieri per il parmigiano, il Samarani per il cremasco, e il Gambini (1829) per il pavese: avesse saputo di questa presenza, il bravo patriota e lessicografo pavese non avrebbe troppo insistentemente polemizzato con la mia passione fiorentinocentrica.
Nel citato passo tocco anzi sfioro con forza il problema su cui angosciosamente riflettevo: quei bravi dialettologi, che, potendo usare un anacronismo, definirei prescientifici, avevano messo «a riscontro» dei loro idiomi (evito qui la non sinonimica denominazione di vernacoli e di dialetti) «una lingua italiana»: non la ma una, e quale?
Forse avrei dovuto chiedere a tutte le nazioni, «quale lingua europea e magari universale a riscontro delle lingue nazionali»? Mi illudevo che la socialità democratica imponesse una lingua comune, senza varianti laterali o dottamente gergali, così che tutti pensassero, dicessero e comprendessero tutto, con la competenza con cui, come diceva Carlo Porta all’abate Giavano, la sua poesia era capita da centomila milanesi. Forse un futuro ecumenico aiuterà a interpretare la mia proposta, nella sua eccezionalità.
Tempo verrà, «presago il cor mel dice», che i dialetti saranno cancellati, che la cerchia famigliare dovrà lasciare spazio ad altre culture e lingue, che anche l’italiano (non quello di Dante, di Petrarca, di Boccaccio, o, per venir più vicini, di Ugo Foscolo e di Giacomo Leopardi e magari mio) sarà una lingua seconda: la cultura avrà ancora modo di dare voce corretta ai lemmi dei vocabolari citati, e aggiungerei, fossi un profeta, alle onomasiologie diatopiche dell’AIS? Bisognerà tentare, anche in extremis, per la dignità di tanti vili e meccanici, e anche per la mia, di dare suono a quei lemmi e a quelle schede mute, e poi archiviare con la dovuta pietas quelle oralità, Crusca non obstante: le potranno ascoltare nel precipitoso futuro venticinque nostalgici uditori in un «Museo storico delle lingue degli italiani»?
(Angelo Stella)