Peter Brooks, recensione (prima parte) de:
I Promessi Sposi
di Alessandro Manzoni, tradotto dall’italiano e con una introduzione di Michael F. Moore, e una prefazione di Jhumpa Lahiri
Traduzione della recensione a cura di Arianna Giardini.
Nel corso degli anni ho conosciuto tanti italiani che non sopportano I promessi sposi. Sono stati costretti a leggere il romanzo a scuola, come una sorta di tesoro nazionale che doveva essere più ammirato che apprezzato, al fine di memorizzarne i passi, ripeterne a memoria i messaggi. Lo si è imbalsamato. Alla morte di Alessandro Manzoni, avvenuta nel 1873 (Giuseppe Verdi scrisse lo straordinario Requiem per commemorarlo), il romanzo era diventato un simbolo dell'unificazione italiana, qualcosa di simile al monumento a Vittorio Emanuelle II a Roma. Doveva essere guardato con riverenza e soggezione, come un'edificante illustrazione dell'operato della provvidenza divina. È un peccato, perché I Promessi Sposi è il più originale e potente dei romanzi storici europei che si inseriscono nel solco di Walter Scott. Lo Scott stesso affermò che si trattava del migliore romanzo che non aveva scritto. Il suo posto è insieme a La Certosa di Parma e a Guerra e Pace come dramma di vita vissuta all'interno delle dinamiche della storia.
Sembra che Manzoni abbia iniziato I promessi sposi poco dopo aver letto la ricostruzione dell'Inghilterra medievale che Scott fece in Ivanhoe (1819). Il suo passaggio al romanzo avvenne dopo aver scritto per anni poesie e tragedie di argomento storico. In Francia, nazione che detterà l’estetica dell’intero secolo, Victor Hugo e Alexandre Dumas padre si stavano imponendo sulla scena nazionale; l'influenza di Shakespeare era ormai ovunque, e Stendhal, in Racine e Shakespeare, raccomandava ai contemporanei di abbandonare le regole neoclassiche che avevano a lungo incatenato il teatro francese e di impegnarsi a portare in scena la storia nazionale. Quando I Promessi Sposi venne pubblicato nel 1827, ebbe un successo immediato. Manzoni intraprese poi una lunga revisione, in gran parte linguistica, completata nel 1840, per farne un modello esemplare di italiano standard: viaggiò da Milano a Firenze per ascoltare il migliore uso della lingua viva.
Quando si legge il romanzo, tuttavia, si presenta subito qualcosa di inaspettato. Non nella trama, che è quanto di più semplice ci possa essere: due contadini che vogliono sposarsi incappano in un ostacolo minaccioso e apparentemente insormontabile. Incontriamo il parroco, don Abbondio, durante una passeggiata serale nel novembre 1628 nei pressi di Lecco, sui laghi italiani. Egli alza lo sguardo dal breviario e scopre due bravi che lo aspettano. Ben presto apprendiamo che questi sgherri sono stati mandati dal loro padrone, Don Rodrigo, per ordinare che il matrimonio non abbia luogo. Costui ha individuato la futura sposa, Lucia Mondella, e la desidera per il proprio divertimento. Ma successivamente, invece di esporre direttamente la situazione, il narratore ci offre lunghe citazioni di gride, o decreti, emessi da varie autorità. "L'Illustrissimo ed Eccellentissimo Don Carlos d'Aragona, Principe di Castelvetrano, Duca di Terranuova, Marchese di Avola, Conte di Burgeto, Grande Ammiraglio e Gran Conestabile di Sicilia, Governatore di Milano e Capitano Generale di Sua Maestà Cattolica in Italia" mette al bando i bravi che fanno patire il suo popolo. Segue un altro proclama di un'altra autorità che proibisce e condanna l'esistenza dei bravi. E un altro e un altro ancora.
Riusciamo a cogliere il senso, senza che ci vengano offerte spiegazioni: le varie amministrazioni conflittuali e deboli degli Stati del Nord Italia ripetutamente mettono fuori legge, minacciano, promettono punizioni, ma sono del tutto impotenti a fronteggiare realmente la situazione. Checché ne dicano le dichiarazioni, i bravi sono lì per far rispettare la volontà di Don Rodrigo. Eppure arriviamo a capirlo dalla lettura della documentazione storica che si trova all'inizio del romanzo. Manzoni inserisce le sue fonti nel testo: citazioni di gride e di antiche cronache, come l'Historia patria di Giuseppe Ripamonti. Il risultato non è solo un romanzo storico ma una sorta di romanzo storiografico che invita il lettore ad addentrarsi nella dinamica di lettura e scrittura della storia.
È come se Manzoni si fosse formato come uno storico degli Annales, soppesando documenti antichi per comprendere e ricreare i lineamenti di un mondo perduto (ma sempre con un riferimento al mondo a lui contemporaneo dell'Italia ancora disunita). Quello che cogliamo non è solo la rievocazione di linguaggi di autorità del passato che tentano di ordinare una realtà disordinata, ma un gioco sociolinguistico interpretativo la cui posta è altissima. È un modo nuovo e sorprendente di scrivere la storia all'interno del genere narrativo. Il romanzo, fin dall'esordio, diventa polifonico o, per usare un termine di Mikhail Bakhtin,"eteroglossico": un teatro linguistico caratterizzato dallo scontro multiforme di voci. Il lettore si ritrova coinvolto in un dramma di eteroglossia, che sospinge non solo la trama ma anche l'intera rievocazione storica tentata da Manzoni.
Il poco coraggioso Don Abbondio esegue gli ordini di Don Rodrigo. Il matrimonio non ha luogo, un tentativo di ingannare il prete per far sposare la coppia va a vuoto, lo sforzo di Don Rodrigo di rapire Lucia viene sventato dal buon frate Fra Cristoforo, e Lucia, il suo fidanzato Renzo e sua madre finiscono per fuggire attraverso il fiume Adda. Lucia viene affidata alla custodia della monaca Gertrude in un convento a Monza, mentre Renzo si reca a Milano. Qui si imbatte nelle rivolte per il pane del 1628 e in altri decreti di funzionari incapaci che tentano di fissare i prezzi e tenere sotto controllo la penuria di approvvigionamenti (interventi che Manzoni, da sostenitore del liberismo classico, respinge come folli); si fa arrestare come agitatore, poi fugge in un viaggio notturno che lo riporta sull'Adda e, una volta attraversato il fiume, fino a Bergamo, città sotto il dominio veneziano e non milanese. L’attraversamento dei confini nell'Italia Settentrionale la dice lunga sul disordine politico in cui versa il mondo. Renzo trova rifugio e una relativa pace a Bergamo, dove diventa un proto-capitalista nel settore della tessitura della seta.
Le avventure di Lucia conducono al nucleo morale del romanzo. La suora caritatevole sotto la cui protezione viene messa la protagonista si rivela un terrificante esempio di monacazione forzata, raccontata in una lunga analessi narrativa, basata su una storia vera e su uno scandalo, che divenne nota come La monaca di Monza. Spesso messo a confronto con La Religieuse (La Monaca) di Denis Diderot, dichiaratamente anticonventuale e incendiaria, il racconto di Gertrude è gotico e a tinte fosche e allo stesso tempo una straordinaria indagine psicologica sulle famiglie, soprattutto su padri e figlie, e sull'esercizio illegittimo del potere sugli altri.
Gertrude, che intrattiene segretamente una relazione con un uomo che vive vicino a una breccia nel muro del convento, finisce con l’esserne completamente manipolata - costui è parte della rete di potenti senza scrupoli insieme a Don Rodrigo – ed è così costretta a sacrificare la sua protetta alla macabra struttura di potere in cui è invischiata. Lucia viene rapita e portata nel castello di un uomo così malvagio e temuto da esser conosciuto come l'Innominato, il Senza Nome (probabilmente ispirato alla figura del nobile Bernardino Visconti), che è molto più potente di Don Rodrigo, ma obbligato da legami feudali e famigliari a portarne a termine il lavoro sporco. L'Innominato ha il compito di consegnare Lucia a Don Rodrigo.
A questo punto accade qualcosa di inaspettato nel romanzo. L’immagine, impossibile da scacciare, di Lucia indifesa e il futuro spaventoso di cui si sta rendendo complice con la consegna della giovane sono le cause di una notte insonne, durante la quale la mente dell'Innominato ripercorre incessantemente la sua vita criminale, e scopre che la sua identità è definita da ciò che ha fatto:
Il tempo gli s’affacciò davanti voto d’ogni intento, d’ogni occupazione, d’ogni volere, pieno soltanto di memorie intollerabili… Indietro, indietro, d’anno in anno, d’impegno in impegno, di sangue in sangue, di scelleratezza in scelleratezza… Eran tutte sue, eran lui.
Finalmente spunta l'alba ed egli sente e vede gli abitanti del villaggio che si accalcano lungo il pendio della collina come per una festa. Il grande cardinale Federigo Borromeo, arcivescovo di Milano, è venuto a predicare. L’Innominato lascia il suo inaccessibile rifugio per curiosità e, ancor di più, per necessità. È ormai prossimo alla conversione.