Il percorso museale, allestito da Michele De Lucchi, propone una visita di Casa Manzoni in dieci sezioni, che ripercorrono, attraverso gli arredi e le opere d'arte esposte nelle sale, diversi itinerari nella vita e nell'opera dello scrittore.
Dalla famiglia ai ritratti, dai paesaggi del romanzo alla sua passione per la botanica, dagli amici agli scrittori che lo presero a modello, dalla camera da letto - restata quale la lasciò - allo studio in cui nacquero i Promessi Sposi.
Alessandro Manzoni, figlio legale di Pietro e di Giulia Beccaria, crebbe «senza famiglia»: eppure il destino - lui avrebbe detto «la Provvidenza» che a volte trae il bene dal guazzabuglio delle vicende umane - lo aveva voluto discendente delle due più illustri famiglie milanesi, di Cesare Beccaria e dei Verri, che avevano dettato all’Europa una nuova civiltà giuridica e culturale.
La lunga dimenticanza di Giulia, che affidava nel 1791 Alessandro ai collegi, si redime a Parigi nel 1805, quando conosce e si fa riconoscere da un figlio di eccezione: a lui, nel ricordo «virtuoso» di Carlo Imbonati, certo rivelava che il vero suo padre era Giovanni Verri, il fratello «mondano» di Pietro e di Alessandro. Il desiderio di recuperare nei figli una fanciullezza non vissuta (il ricordo di un breve incontro a sei anni con il grande nonno rimarrà una sequenza della sua memoria visiva), si realizza nel matrimonio (8 febbraio 1808), di Alessandro Manzoni, ventitreenne, con Enrichetta Blondel, non ancora diciassettenne, figlia di un industriale ginevrino, con filanda a Casirate d’Adda.
Dopo Giulia - si rinnovava il nome della nonna che accanto al figlio ricostruiva una famiglia finalmente stabile - nata a Parigi il 23 dicembre 1808, vennero Pietro, Cristina (prima nascita in via Morone), Sofia, Enrico, Clara, Vittoria: il pastello di Ernesta Bisi raccoglie in una composizione di ritratti l’immagine di una famiglia felice - Clara, morta a due anni, ha l’aureola - negli anni dell’officina dei primi Promessi sposi. Si aggiungono Filippo e, ultima, Matilde (13 luglio 1830). La morte, il 25 dicembre 1833, di Enrichetta, la «unicamente amata» (è lecito riferire a lei il predicato che misura l’amore non imitabile di Cristo per la Madre nell’estremo inno Il Natale del 1833), apre una serie di lutti: seguono la madre tre figlie, a soli ventisei anni, Giulia (madre di Alessandrina), Cristina (madre di Enrichetta) e Matilde; la segue a ventotto Sofia (madre di Antonio, Alessandro, Giulio, Margherita).
Solo Vittoria, sposata a Giovan Battista Giorgini, ed Enrico sopravvivono al padre. Enrico, avventuroso industriale serico, aveva a lui causato molte amarezze (altre le aveva aggiunte lo scapestrato Filippo), e determinerà, per la tutela dei propri figli minorenni, la vendita nel 1874 in asta giudiziaria della Casa della famiglia Manzoni.
Nonostante che Alessandro Manzoni avesse per carattere una assoluta avversione a farsi ritrarre, la sua fama, iniziata molto presto, vide moltiplicarsi i ritratti, realizzati con le tecniche più svariate, dalla pittura alla scultura, dal disegno all’incisione, dalla litografia alla fotografia, come confermano le opere di data diversa radunate in questa sala.
Si tratta per lo più di immagini realizzate senza il consenso dell’effigiato che dunque non ebbe parte attiva nella gestione della propria immagine
Hanno costituito un’eccezione i suoi due ritratti più belli e famosi, per cui lui acconsentì addirittura a posare: quello eseguito nel 1835 da Giuseppe Molteni, in collaborazione con Massimo d’Azeglio, autore dello sfondo che rappresenta il lago di Como, conservato alla Biblioteca Nazionale Braidense, e quello, diventato popolarissimo, che Francesco Hayez ha dipinto nel 1841 su commissione del figliastro Stefano Stampa, esposto nella Pinacoteca di Brera e qui documentato da una riproduzione fotografica d’epoca.
Ci troviamo davanti ad una serie di ritratti che restituiscono l’aspetto di Manzoni negli anni, da quelli giovanili che rivestono un carattere ancora privato alle rappresentazioni più celebrative della vecchiaia e postume, quando ormai il personaggio era entrato nel pantheon dei padri della patria.
Significativo, nella sua dimensione ufficiale, è il monumentale ritratto realizzato da Carlo De Notaris nel 1874, un anno dopo la morte. Commovente invece è il bellissimo disegno in cui Stefano Stampa ha rappresentato il patrigno sorprendendolo nella sua intimità.
Le sculture ci restituiscono un Manzoni pubblico, come nel piccolo gruppo in bronzo, di cui si conoscono altre versioni, che rappresenta lo storico incontro avvenuto proprio in questa casa il 25 marzo 1862 tra Garibaldi e l’«uomo che onora – disse il generale – tanto l’Italia». O come nel bozzetto del monumento in bronzo realizzato nel 1883 da Francesco Barzaghi e collocato in piazza San Fedele davanti alla chiesa frequentata dallo scrittore.
La straordinaria popolarità goduta dai Promessi sposi, a partire dalla prima edizione del 1827, si tradusse subito in una altrettanto straordinaria fortuna visiva.
I luoghi, i personaggi, gli episodi principali furono rappresentati in pittura, scultura, e addirittura in un ciclo di affreschi realizzato tra il 1834 e il 1837 dal pittore Nicola Cianfanelli negli Appartamenti Reali della Meridiana a Palazzo Pitti su commissione del granduca Leopoldo II di Toscana, grande ammiratore di Manzoni.
Ma furono soprattutto le illustrazioni, quelle inserite nei libri e in particolare le serie di incisioni o di litografie sciolte, spesso destinate a essere incorniciate, a diffondere in ogni casa d’Italia, dalle Alpi alla Sicilia, le immagini di un mondo presto entrato nell’immaginario collettivo nazionale.
I dipinti qui esposti sono esemplari anche perché rappresentano due degli episodi più amati, come L’addio a Cecilia proposto con successo all’esposizione di Brera del 1857 dal nobile dilettante Carlo Belgiojoso o un altro addio accorato, quello ai «monti sorgenti dall’acque», da parte di Lucia, interpretato con grande adesione sentimentale da Luigi Bianchi.
Questi e altri momenti fondamentali del grande disegno storico che compone il romanzo li ritroviamo nelle serie illustrate più popolari come le litografie realizzate dal pittore cremonese Gallo Gallina e edite da Ricordi tra il 1827 e il 1828, qui presenti nella rara versione colorata a mano. La serie di Gallina, che è stata una delle più diffuse, è caratterizzata dall’impegno con cui questo artista, esperto nei quadri di genere storico, ha saputo rendere con fedeltà e precisione i luoghi - tanto gli esterni che gli interni - e i costumi del Seicento, il secolo in cui è ambientato il romanzo.
Troviamo particolarmente riuscita la dimensione epica con cui sono state rese le scene d’insieme in cui Renzo appare protagonista e a suo modo un eroe.
Mentre la bellezza e la sensibilità di Teresa risaltano nel busto dove Francesco Confalonieri la aveva ritratta ancora giovane. Vissuta a Parigi tra il 1819 e il 1822 con il primo marito, era diventata amica del grande pittore e illustratore Achille Devéria che sarà decisivo per le sue scelte culturali. Teresa e il figlio crearono, intensificando gli acquisti dopo le nozze con Manzoni, una magnifica e aggiornata biblioteca, ricca soprattutto di romanzi, di libri di viaggio e altri volumi di vario genere, di cui molti illustrati. Proprio in questo ambito è significativa la presenza delle più importanti edizioni francesi, romanzi e serie satiriche, illustrate. Vi ritroviamo, insieme ai fascicoli de «La Caricature» o delle «Charivari», le mitiche creazioni degli anni Trenta, dello stesso Devéria, Grandville, Daumier, Cham, Gavarni, Malapeau, Doré.
Qui sono esposti alcuni bellissimi esemplari di questi libri, splendidamente rilegati, che dovranno servire da modello per la nuova edizione dei Promessi sposi, illustrata da Francesco Gonin ed uscita a dispense tra il novembre del 1840 e quello del 1842.
In questa impresa, che rappresentò una grande novità nell’ambito dell’editoria italiana, Teresa ebbe un ruolo decisivo nell’orientare e seguire il marito. Venne creata un’immagine molto moderna del romanzo, più rispondente a quelle che erano state le intenzioni di Manzoni cui non erano piaciute le illustrazioni precedenti, come le litografie, qui esposte, di Gallina e del grande disegnatore romano Bartolomeo Pinelli che, anche se eccellenti dal punto di vista tecnico, avevano tradito lo spirito e l’atmosfera del libro, interpretandolo come un pittoresco dramma popolare.
«La stanza, piuttosto spaziosa, era arredata con una semplicità che colpisce. Le pareti sono tappezzate con una carta a fiori, di color bianco e gialliccio; nel centro del soffitto è dipinto un mazzo di grandi rose. In capo al letto è sospeso un quadretto sacro e un piccolo crocifisso.
Nella parete a destra del letto, è sospeso un ritratto ad olio in piccole proporzioni e senza cornice dell’amico più intimo del Manzoni, il prof. Rossari, morto due anni or sono, dallo stesso lato, al di là del caminetto, pende un bellissimo quadretto ovale della Sacra Famiglia, dipinto su rame; sulla parete di fronte, al di sopra di un piccolo canapè coperto di stoffa di lana azzurra e bianca, si vede un’immagine della Vergine, contornata da una cornicetta dorata.
Cinque o sei poltroncine semplicissime sono disposte qua e là; verso una delle due finestre, che occupano la quarta parete, è il seggiolone prediletto, fatto all’antica e coperto di cuoio. Un modesto tavolino di noce, di forma circolare e coperto da marmo giallo, sta in mezzo alla stanza.
Il caminetto è sormontato da uno specchio, e sul suo davanzale si vedono due spazzole, una per la barba, l’altra pei capelli».
(«Illustrazione popolare», 29 maggio 1873)
... Egli volle parlare da uomo agli uomini, come, a lor modo, parlarono tutti quelli che ebbero qualche cosa di non cretino da raccontare. Ebbe compagno nell’impresa della spazzatura un altro conte suo contemporaneo, disgraziatissimo e macilento della persona. La parola di quest’ultimo ha una nitidezza lunare: «Dolce e chiara è la notte». ... alti pensieri conchiudono il meraviglioso poema «Addio Cecilia! riposa in pace». ...
Don Alessandro alcuno mai non ci farà dono d’una nuova edizione della vostra storia! ma, se fosse, vi chiederemmo: «Don Alessandro, non fotografate così spietatamente le magagne di casa; non interpretate così acutamente, ai fini d’un ammonimento sublime, i fatti che sogliono ricevere espressione nella retorica del giorno. Che Renzo sia un libertario un po’ in gamba, mettetegli almeno una cravatta di quelle, che portano i terribili comunardi della vostra Parigi. Che Lucia non sia così modesta, così legata, così facile ai rossori, da attirarsi le beffe di un asso della tiratura romanzesca. Oppure camuffate Renzo da guidatore su pista e fategli declamare Nietzsche, svestite Lucia e fatele leggere Margueritte. Allora soltanto potrete sperare un posto in Parnaso; mentre così, Don Alessandro, (ma che avete mai combinato?) vi relegano nelle antologie del ginnasio inferiore, per uso dei giovinetti un po’ tardi e dei loro pigri sbadigli. Che cosa avete mai combinato, Don Alessandro, che qui, nella vostra terra, dove pur speravate nell’indulgenza di venticinque sottoscrittori, tutti vi hanno per un povero di spirito?»
(Carlo Emilio Gadda, Apologia manzoniana, 1927)
Premessa illuminante, quella del secondo grande lombardo (nato nella via intitolata al primo), per accedere a Manzoni, tutti a «tutto Manzoni», come dettava Carlo Dossi. Comprenderlo nella continuità e nelle ripensate accensioni dei suoi scritti, in un tempo di settant’anni, dal 1802 al 1870, nella «epoca memorabile» nata dalla Rivoluzione francese, che soffre e vive la formazione degli Stati nazionali, con l’unificazione politica anche del Regno d’Italia, con il pulsare, spesso inavvertito, dei problemi sociali, che trovano un acme, vorrebbe suggerire a lui Gadda, nella Comune della «sua» Parigi.
L’autore dei Promessi sposi e della Storia della colonna infame chiede che il suo romanzo e il suo antiromanzo siano letti nel contesto delle opere poetiche e saggistiche, di storico e di linguista, perché solo così se ne comprende l’ardua tensione ideologica e il fascino
della «dicitura»: che, nella trasparenza dello sfondo caravaggesco, dice ancora Gadda, nella gradualità pluriespressiva (lo testimoniano le migliaia di pagine autografe custodite alla Braidense), raggiunge, ha sintetizzato il grande maestro Giovanni Nencioni, il «sublime dal basso» del suo perenne modello, Virgilio (le cui opere Manzoni tiene nella sinistra, in piazza San Fedele).
Lo straordinario brano dei Promessi sposi della descrizione della «vigna di Renzo» rivela la profonda conoscenza della botanica da parte di Manzoni che, gentiluomo di campagna, fu un espertissimo agronomo. Si trattava di una vocazione molto diffusa presso l’aristocrazia lombarda e che risaliva, o comunque si era consolidata, all’età dei Lumi. Dovendo gestire le vaste proprietà sue e della madre, egli studiò a fondo e realizzò nuove tecniche di coltivazione di specie arboree, cereali, vigne, frutta, senza trascurare il giardinaggio.
Rivolse un particolare interesse, del resto diffuso in quegli anni, alla coltivazione del baco da seta, ma sperimentò anche la coltivazione della canapa e del cotone. Fu poi tra i sostenitori dell’introduzione della robinia per rafforzare argini e massicciate, un uso che, molto diffuso, determinerà un decisivo cambiamento nel paesaggio delle campagne lombarde.
Questa passione, riflessa nelle pagine del romanzo, è documentata nelle lettere, dove dà notizia dei suoi esperimenti, chiede sementi e parla, soprattutto, dei libri di agricoltura che studiava e che sono ancora conservati nella biblioteca, rimasta come ai suoi tempi, della villa di Brusuglio, la residenza estiva della famiglia che la madre Giulia Beccaria aveva ereditato dal suo compagno Carlo Imbonati. È ancora circondata dal grande e bellissimo parco che fu rimodellato dallo stesso Manzoni per farne un luogo prediletto di studi e letture. Di lì poteva vedere, in lontananza, le cime delle sue montagne: la Grigna e il Resegone. Proprio nella solitudine di Brusuglio lavorava alle sue grandi opere e, nel luglio 1821, scriveva Il Cinque maggio.
I dipinti qui esposti documentano alcuni aspetti della città di Milano nel secolo di Manzoni, come la bella veduta del popolare mercato del Verziere di Alberto Dressler, o sono legati alla sua biografia come l’immagine resa da Casimiro Radice in una dimensione di pittura di genere della Cascina la Costa a Galbiate dove aveva avuto «il primo nutrimento».
Mentre le cime della Grigna nel territorio di Lecco, rappresentate nei due quadri di Salvatore Mazza, patriota, pittore e scrittore – che aveva raffigurato nel 1854 I bravi alla Malanotte ispirato a un episodio dei Promessi sposi - ricordano le «catene ininterrotte di monti» evocate ad apertura del romanzo. Ad atmosfere manzoniane rimanda anche la veduta lacustre riferibile al grande protagonista del paesaggio romantico nella prima metà dell’Ottocento Giuseppe Canella. Significativa è anche la presenza di Stefano Stampa, il figliastro di Manzoni, che si distinse sia come collezionista che come pittore dilettante, allievo di Massimo d’Azeglio, genero di Manzoni.
Come dimostrano anche queste opere, lo svolgimento della pittura di paesaggio e della veduta in Lombardia negli anni della Restaurazione furono profondamente influenzate dai Promessi sposi. Nelle pagine del romanzo le descrizioni dei luoghi risentono sia di un approccio razionale, determinato dalla rilevazione quasi topografica del territorio, sia di una resa sentimentale, dove la natura e l’ambiente riflettono lo stato d’animo di chi li osserva. Pensiamo alla prima pagina del romanzo dove il vertiginoso percorso panoramico che parte dalla visione aerea di «quel ramo del lago di Como», finisce nel silenzio e nella malinconia di quelle «stradette, più o meno ripide e piane; ogni tanto affondate, sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo, non iscoprite che un pezzo di cielo e qualche vetta di monte»; o allo struggente paesaggio colto all’alba che suscita insieme serenità e «mestizia» nell’episodio dove padre Cristoforo viene seguito nel suo accorato cammino dal «suo convento di Pescarenico» alla casa di Lucia.
«Perché, Pagani, de l’assente amico / non immemore vivi, il ciel ti serbi / sano e celibe sempre». Giovan Battista Pagani è stato, fino al 1806, per Alessandro, l’amico che si ascolta.
Con il medesimo appellativo Manzoni si premurerà di indicare, nel 1836, Carlo Porta, la cui "cameretta" aveva accolto Gaetano Cattaneo, Tommaso Grossi, e «il pivello» Luigi Rossari: nei loro colloqui epistolari si ascoltano, inaspettatamente, voci scherzose e facete.
Ugo Foscolo, già virtualmente in esilio, si definisce, nel 1807, «lontano amico» di Manzoni, del quale non si conosce risposta. A Vincenzo Monti assicura da Parigi l’11 febbraio 1809: «Io ti conservo sempre tutta l’antica mia amicizia ed ammirazione», come ribadisce di casa il 2 febbraio 1827, rivolgendosi all’illustre amico con il voi. Fino al grande romanzo, dove con Grossi è ricordato Giovanni Torti, entrambi per meriti poetici, il collaboratore più assiduo dell’officina manzoniana rimane Ermes Visconti, che improvvisamente, interprete di una sua profonda conversione, si allontana per sempre da via Morone.
Nel 1827 escono a Milano anche le Operette morali di Giacomo Leopardi: il reciproco silenzio è il segnale di come i due Grandi camminino parallelamente, con l’obbligo di non dialogare. Amici non possono dirsi Niccolò Tommaseo e tanto meno Cesare Cantù. Non amici ma grande estimatori, Goethe, Lamartine, Poe. Come testimonia Cristoforo Fabris nelle Memorie manzoniane, Manzoni ha progressivamente bisogno di orecchi che lo ascoltino: «[gli amici], durante ogni età della sua vita, furono sempre pochi ... e per non parlare del Grossi, del Torti, del Rosmini, del Giudici, del marchese Ermes Visconti, di monsignor Tosi ... dirò solo di quelli che gli furono amici anche nella sua lunga vecchiezza, e che mi sono un così caro e venerato ricordo: i due abati Ghianda e Ceroli, il professor Rossari, il bibliotecario Rossi, il marchese Lorenzo Litta Modignani, Giulio Carcano, il medico Salvatore Pogliaghi, il conte Gabrio Casati, il marchese Giuseppe Arconati, tutti ora defunti; e, fra i viventi, il Bonghi, il professor Rizzi e don Giovanni Visconti Venosta. ... Egli prendeva molta parte alla conversazione, anzi era quello che parlava più di ogni altro; spariva, quasi interamente, nella libertà del colloquio famigliare, e talora nella vivacità del suo discorso, quel difetto della balbuzie che tanto lo tormentava alla presenza di un forestiero, fosse pur stato un suo adoratore».
Con gli anni Cinquanta, al di sopra di tanti amici, il cui ascolto è testimoniato dai Colloqui, il dialogo e il confronto sono con Antonio Rosmini.
«Chi a quel tempo, svoltando dalla piazza de’ Belgioioso nella via del Morone, fosse venuto alla casa del Manzoni, la quale serbava ancora la sua negletta facciata del secolo passato, attraversando il cortile e il portichetto di fronte, per cercare il poeta che la gloria salutava col primo sorriso, l’avrebbe veduto nel suo studio a terreno, a manca dell’andito che riesce in un piccolo giardino.
Quello studio, le cui pareti si vedono anche oggi coverte all’ingiro da un migliaio di volumi de’ classici antichi e moderni, e degli storici e filosofi d’ogni età e paese, e il giardino ombreggiato da qualche albero antico e sparso d’alcuni cespi di fiori, furono dal principio del secolo l’asilo del poeta; e là corse animosa e non mai stanca la vita del suo pensiero.
L’altro studio, di fronte al suo, egli lo aveva destinato al Grossi, che gli era come fratello, e abitava nella stessa casa».
(Giulio Carcano, 1873)