Il nonno di Manzoni fu, con i fratelli Verri, tra i più vivaci esponenti dell’Illuminismo lombardo; fu collaboratore del «Caffè» e autore, nel 1764, dell’opera che lo rese celebre, Dei delitti e delle pene. Il testo fu stampato anonimo a Livorno per timore di ritorsioni. L’opera, che dimostra la barbarie della tortura e della pena di morte, fu in effetti messa all’Indice nel 1766, ma ciononostante riscosse un grande successo tra gli intellettuali di tutta Europa.
Dalla moglie Teresa de Blasco Cesare ebbe due figlie, Giulia e Marietta. Con la primogenita i rapporti non furono mai distesi, e anzi si incrinarono irrimediabilmente dopo la morte della madre e della sorella. Giulia infatti intentò una causa contro il padre per ottenere il possesso della quota di successione della madre; nel suo memoriale lo accusò di averla costretta, concedendole una dote non adeguata, a sposare un uomo che le ispirava «turbamento e ripugnanza». Nel novembre del 1794 Cesare morì per un improvviso colpo apoplettico e Giulia trovò un accordo con la sua seconda moglie, Anna Barbò.
Manzoni vide il nonno una sola volta, prima di partire per il collegio: lo ricorderà mentre, a fatica, si alzava per porgergli una scatola di cioccolatini.
Quando il conte don Pietro Manzoni sposò Giulia Beccaria nel 1782 aveva quarantasei anni.
Agiato vedovo senza figli, don Pietro viveva in una casa sui Navigli con le sue sette sorelle nubili, tra cui una ex suora, e un fratello canonico al Duomo di Milano. Giulia, abituata a frequentare i circoli intellettuali dell’Illuminismo lombardo, mal sopportava «il sacro zelo» (queste le sue parole in una lettera a Pietro Verri) del marito conservatore e clericale. La noia della vita familiare, l’astio nutrito dalle cognate e l’angustia della casa sui Navigli non furono allietati nemmeno dalla nascita del piccolo Alessandro, così chiamato in memoria del nonno paterno. Nel tentativo di vincere il disprezzo che Giulia nutriva per la sua modesta posizione sociale, Pietro chiese ai suoi fratelli di essere inserito nell’alta nobiltà del patriziato milanese, ma il tentativo fallì e i coniugi si separarono il 23 febbraio 1792. A lui rimase la tutela del figlio, che fece studiare in collegio.
Dopo l’arrivo delle truppe francesi nel 1796 si ritirò nella solitudine della villa del Caleotto, lontano dai disordini di Milano. Don Pietro morì nel 1807 dopo aver istituito Alessandro suo erede universale, lasciando a Giulia «due pendenti di diamanti in contrassegno della mia stima».
Figlia del marchese Cesare e di Teresa de Blasco, Giulia, insieme alla sorella Marietta, trascorse una difficile infanzia, segnata dall’assenza della madre, sempre in viaggio e immersa nella vita mondana. Alla sua morte Cesare si risposò e Giulia fu mandata in convento, dove riceveva le visite del solo Pietro Verri, amico del padre.
A diciotto anni Giulia, bella con i suoi capelli rossi e gli occhi verdi, lasciò il convento e si innamorò di Giovanni Verri, fratello minore di Pietro: non essendo ricca, però, il matrimonio era escluso. Nel 1782 andò in sposa al conte Pietro Manzoni; tre anni dopo nacque Alessandro, figlio naturale proprio di Giovanni Verri.
Nel 1796, alcuni anni dopo la separazione dal marito, Giulia partì per Parigi, dove fu finalmente felice. Viveva con l’amato Carlo Imbonati, uomo ricco, bello e stimato, e grazie alla celebrità del suo cognome fu accolta nei circoli intellettuali della città. Qualche anno dopo, nel 1805, Giulia, che non era stata presente nei suoi primi anni, chiese che Alessandro la raggiungesse a Parigi: da allora madre e figlio non si separarono più fino alla morte di «donna Giulia» nel 1841.
Nacque nel 1791 a Casirate d’Adda dallo svizzero Francesco Blondel, allevatore di bachi da seta, e da Maria Mariton, originaria della Linguadoca.
A Giulia Beccaria parve la sposa ideale per il figlio che, in una lettera del 1807 a Fauriel, definisce Enrichetta una giovane «tres gentille», dedita con tutta se stessa ai «sentiments de famille». Le nozze avvennero in semplicità nel febbraio 1808, con rito calvinista, destando scalpore in città: un nobile, nipote di un alto prelato, sposato con una protestante era cosa inaudita. Enrichetta, ferita da tali maldicenze, fu ben felice di trasferirsi a Parigi, dove il 2 aprile 1810, durante i caotici festeggiamenti per le nozze di Napoleone e Maria Luisa d’Austria, avvenne l’improvvisa conversione di Manzoni.
Il 22 maggio anche Enrichetta, toccata nel profondo dalla fede del marito e guidata spiritualmente da Degola e Tosi, decise di rinnegare il calvinismo, al prezzo di incrinare i rapporti con la severa madre, che l’accusò di aver commesso «il più enorme di tutti gli errori».
La sua morte, il giorno di Natale del 1833, sprofondò il marito, la suocera e gli otto figli in una grande mestizia. Manzoni le dedicò un’epigrafe definendola «nuora moglie madre incomparabile» e per dare voce al suo dolore compose, nel 1834, l’inno Natale 1833, rimasto però incompiuto.
Nacque a Brivio nel 1799 da Cesare Borri e Marianna Meda, entrambi di famiglia nobile ma non ricca. A diciannove anni sposò il conte Stefano Decio Stampa. Dalla loro unione nacque, nel 1819, Giuseppe Stefano, ma appena un anno dopo Teresa rimase vedova.
Nel 1827, dopo aver letto I promessi sposi, confidò con entusiasmo alla madre che il loro autore doveva essere «veramente fatto secondo il mio cuore». Volle come precettore per il figlio Luigi Rossari, che le fece conoscere Tommaso Grossi. Manzoni, che nel frattempo non doveva essersi rassegnato alla condizione vedovile, rimase colpito dalla lusinghiera descrizione che l’amico Grossi gli fece di Teresa.
Le nozze furono celebrate il 2 gennaio 1837. Teresa entrò allora a far parte di una famiglia numerosa e si sforzò di instaurare rapporti armoniosi con i figli di Alessandro ed Enrichetta.
Vittorina Manzoni ricorda: «i nostri rapporti con Donna Teresa, per dire la verità non erano stati mai molto spontanei. Fin da principio lei ci teneva molto ad essere chiamata mamma da Matilde e da me; e a questo ci teneva anche papà, che le voleva molto bene. Noi volevamo compiacere lei, che era buona, e Lui... e scrivevamo quella parola; ma a dirla non ci si riusciva!».
A quarantasei anni Teresa, che i medici pensavano malata di tumore, partorì due gemelle: una nacque morta, l’altra spirò poco dopo il parto; di quest’ultima Manzoni conservò una ciocca di capelli.
La seconda moglie di Manzoni morì il 23 agosto 1861.
Nel 1819 la nonna Giulia Beccaria così descrisse la primogenita Giulietta all’amico Fauriel: «un enfant pleine de talent de jugement un peu trop d’exaltation, mais paresseuse et n’ayant pas trop envie d’etudier ni de travailler, elle aime assez la lecture mais des historiettes sentimentales si elle en peut trouver». Una volta cresciuta sarà la stessa Giulia a intrattenere un denso scambio epistolare con Fauriel, il suo «cher parrain» e a raccontargli i fatti di casa, i viaggi e gli impegni del padre alle prese con la scrittura del romanzo.
Nel 1831 iniziò a frequentare la famiglia Manzoni il trentatreenne Massimo Taparelli marchese d’Azeglio, pittore e autore del romanzo patriottico Ettore Fieramosca. D’Azeglio chiese a Manzoni la mano di Giulietta che, dopo una settimana di riflessione, accettò. Si sposarono il 21 maggio di quello stesso anno, e il 10 gennaio 1833 dalla loro unione nacque Alessandra, affettuosamente chiamata Rina.
Nemmeno due anni dopo, il 20 settembre 1834, a Brusuglio Giulietta morì, «sui principii d’un fortunatissimo matrimonio e d’una sviscerata maternità», come scrisse il padre al Granduca di Toscana.
Un medesimo giorno, il 5 settembre 1811, la vide nascere e morire, a Brusuglio.
Per lei Manzoni scrisse un’epigrafe in latino: «immature nata illico praecepta – coelum assecuta».
«Il giorno 21 [luglio], alle sette di mattina, la nostra cara amata Enrichetta mi ha regalato un bel maschiotto appunto nel giorno della mia stessa nascita e nell’istessa mia casa di nascita»: così donna Giulia racconta allo zio Michele de Blasco il lieto evento della nascita di Pietro Luigi, che la nonna amava però chiamare Pedrino o «el Pedrin».
Giovane assennato, Pietro si dedicò allo studio della filologia e della linguistica, ma anche dell’economia e dell’agricoltura. Divenne un punto di riferimento per il padre, che gli affidò varie mansioni, dalla tutela del patrimonio di famiglia, alla revisione delle bozze del romanzo fino al controllo del lavoro della tipografia.
I rapporti si incrinarono nel 1845 quando Pietro si sposò, in gran segreto, con la ballerina della Scala Giovannina Visconti. Dopo pochi mesi, però, anche Manzoni si rassegnò alle nozze del figlio, dalle quali gli nacquero quattro nipotini: Vittoria, Giulia, Lorenzo (che sarebbe diventato un esploratore) e Alessandra.
Con sommo dolore del padre, «il prediletto suo Pietro» morì il 28 aprile 1873.
«Ma petite noireaude»: ecco come Enrichetta soleva chiamare Cristina, l’unica sua bimba a non avere i capelli biondi. Gioiosa e appassionata, la giovane visse un amore tanto intenso quanto inizialmente travagliato. Si innamorò, ricambiata, di Cristoforo Baroggi, figlio del notaio Ignazio, il quale però osteggiava le nozze in quanto trovava la dote di Cristina troppo scarsa per il figlio amante delle spese. Per amore di Cristoforo, Cristina rifiutò dapprima la proposta nuziale di Henri Falquet-Planta, figlio di un’amica della nonna Giulia, e poi quella di un commerciante di Cremona.
Con queste parole Cristina espresse al suo amato la forza del suo sentimento: «Ricordati Cristoforo mio che la tua Cristina sceglierebbe mille volte la morte anzi che abbandonarti, ricordati che qualunque siano gli ostacoli che si oppongano al suo amore, egli sarà sempre il solo scopo della sua vita ricordati che mille volte ti giura di non esser mai che tua tutta».
Dopo qualche anno, grazie all’intercessione della nonna, dello zio Beccaria e del cugino Giacomo, il notaio Baroggi diede il suo placet alle nozze, che si celebrarono il 2 maggio 1839. Gli sposi chiamarono la loro bimba, nata il 13 febbraio 1840, Enrichetta, come la nonna materna.
Il loro fu un matrimonio molto felice, interrotto dalla prematura morte di Cristina. Nell’epigrafe a lei dedicata Manzoni descrisse la sua troppo breve vita come «immacolata pia caritatevole».
Mentre Giulietta fu educata in casa dalla governante, Manzoni affidò l’educazione di Cristina e Sofia a Giovanni Torti, assiduo frequentatore della casa di via del Morone.
Il 5 dicembre 1838 Sofia sposò, con gli auspici di entrambe le famiglie, il marchese Lodovico Trotti Bentivoglio, che Teresa Borri descrive al figlio Stefano come «tanto buono, di cuor tenero, affettuoso, coraggioso, fiero e dolce, che proprio Sofia è fortunatissima». Dal marito, che era stato capitano di cavalleria in Moravia e Boemia, Sofia ebbe quattro figli, Antonio (chiamato «Tognino»), Alessandro («Sandrino»), Giulio e Margherita.
Sofia, di indole cordiale e premurosa, si sentiva molto unita ai numerosi fratelli, specie al suo favorito, Enrico, e a Vittoria, cui spesso faceva visita e con la quale spesso si recava, anche dopo la morte di Giulietta, dal cognato d’Azeglio.
Condivise però l’infausto destino di Cristina: visse un matrimonio sereno e morì in giovane età, accudita teneramente dal marito, il 31 marzo 1845.
Il secondo «maschiotto» della famiglia Manzoni nacque il 7 giugno 1819, e nel settembre dello stesso anno fu portato a Parigi. Questo secondo periodo parigino non fu particolarmente sereno per Manzoni, afflitto dai malesseri propri e da quelli dell’ultimo nato, gracile e cagionevole.
Nella primavera del 1842, all’età di ventitré anni, sposò la ricchissima e nobile Emilia Redaelli, che portò in dote la considerevole cifra di L. 300.000 e una sontuosa villa a Renate, dove fu spesso ospite Sofia con la sua famiglia. Fu infatti la sola Sofia ad approvare le nozze del fratello, mentre gli altri Manzoni temevano che Enrico avrebbe dilapidato le sue sostanze, spinto dall’incoraggiamento che la moglie offriva alle sue ambizioni. Enrico infatti commerciava bachi da seta e non temeva di spingersi in imprese economicamente sempre più ardite, al punto che giunse a chiedere più volte anticipi sull’eredità della nonna Giulia; la sua situazione finanziaria si aggravò intorno al 1855, quando i creditori si rivolsero direttamente al padre.
Enrico ed Emilia ebbero nove figli: Enrichetta, Alessandro, Matilde, Sofia, Lucia, Eugenio, Bianca, Lodovico ed Erminia.
Insieme a Vittoria fu l’unico dei fratelli Manzoni a sopravvivere alla morte del padre.
La settima figlia di Manzoni nacque il 12 agosto del 1821; dopo il parto la fragile Enrichetta per poco non morì di febbre puerperale. La madre sopravvisse, ma la «cara povera piccola Clara» (così Manzoni a Fauriel) spirò il 1 agosto 1823.
A Vittoria, differentemente dalle sorelle, toccò in sorte una florida e sana fanciullezza, tanto che il fratellastro Stefano l’aveva soprannominata “scoiattolino”, «le petit écureuil». Ben presto, però, la frequenza dei lutti familiari la intristirono e indebolirono fisicamente.
Rientrata a casa dopo gli studi compiuti in collegio, fu osptie della sorella Sofia; quando questa morì fu accompagnata in Toscana dalla zia Luisa Maumary Blondel che aveva sposato Massimo d'azeiglio.
In Toscana conobbe Giovan Battista Giorgini, «persona di grandissimo merito, che gode di molta stima in Toscana, e che spinge la sua adorazione per Papà fino all’idolatria» (da una lettera di Vittoria al fratello Pietro), che sposò a Nervi il 27 settembre 1846.
Bista Giorgini era nel frattempo divenuto uno dei maestri e consiglieri di Manzoni nella certosina opera di aggiornamento della lingua del romanzo al fiorentino parlato.
Dal matrimonio nacquero tre figli: Luisa («Luisina»), Giorgio («Giorgino») e Matilde («Matildina», che a due anni conosceva a memoria tutti i personaggi del romanzo del nonno).
Come Enrico, anche Vittoria sopravvisse al padre: morì infatti nel 1892.
Di tutti i suoi figli Enrico e Filippo furono i due che più causarono angosce e preoccupazioni a Manzoni. Allo scoppiare dei tumulti milanesi il 18 marzo 1848, Filippo, nel giorno del suo ventiduesimo compleanno, si arruolò, incoraggiato proprio dal padre, nella Guardia Civica. Gli Austriaci lo arrestarono al palazzo del Broletto, per poi deportarlo a Kufstein, in Tirolo, dove rimase fino alla metà di giugno. Una volta scarcerato, venne trasferito a Vienna in libertà vigilata. Qui il giovane si indebitò per L. 3.600, ma gli venne in aiuto il padre, ben conscio della «fatale disposizione» del figlio a spendere.
Dopo aver saputo che voleva ipotecare il reddito ricavato dalle quote ereditate dalla nonna e dalla madre, i rapporti tra Manzoni e il figlio si deteriorarono ulteriormente, al punto che fu ventilata l’ipotesi dell’interdizione.
Quando Filippo si sposò, il 10 giugno 1850, il padre non volle nemmeno conoscere la nuora, Erminia Catena. La donna lo rese padre di tre figli: Giulio, Massimiliano e Cristina. Oppresso dai debiti, Filippo chiese aiuto e ospitalità al fratello Enrico, ma dopo un’aspra lite si allontanò da Renate. Implorò allora l’aiuto della matrigna Teresa, che non poté fare altro che mostrare le sue lettere al marito.
Trascorse il resto della sua vita a Milano, vivendo di espedienti e del denaro che Manzoni gli mandava ogni mese. Non ebbe mai la gioia di presentare al padre la moglie e i figli.
L’ultimogenita di Alessandro ed Enrichetta nacque il 13 luglio 1830 a Brusuglio. A cinque anni venne mandata nel Monastero della Visitazione di Milano, dove l’accolse, con tenerezza materna, la sorella Vittoria, che aveva lasciato il Collegio di Lodi dopo la morte della madre. E di Vittoria, sposata a Giovan Battista Giorgini, fu spesso gradita ospite in Toscana.
Di animo malinconico, Matilde amava confidare alle pagine del suo diario i propri turbamenti e l’immensa tristezza di non aver potuto godere dell’affetto materno: «Ma jeunesse s’écoule sans les regards et sans la tendresse d’une Mère», scrisse il 24 marzo 1851.
Morì nubile a Siena, il 30 agosto 1856, a soli ventisei anni. Manzoni, che non aveva trovato il coraggio di visitare la figlia che nell’aggravarsi della malattia lo invocava, disse di lei, in una commossa epigrafe: «Lasciava desiderio di sé per una vita bella di tutte virtù che sublimano il sesso».
I testi delle sezioni La vita, Le opere, La famiglia Manzoni sono stati redatti da Jone Riva, con la collaborazione di Sabina Ghirardi.