Dopo il trasferimento nel collegio dei Nobili a Milano, il giovane Manzoni entrò in contatto con gli esuli politici rifugiatisi in città, conobbe Foscolo, Monti e Visconti e scoprì le idee illuministe. Un vigoroso spirito giacobino e anticlericale anima uno dei suoi primi componimenti, il poemetto Del trionfo della libertà, scritto nel 1801 in seguito alla pace di Lunéville e pubblicato postumo nel 1873. In questi anni compose anche alcuni sonetti: l’Autoritratto (1801), modellato sul Sublime specchio di veraci detti di Alfieri, A Francesco Lomonaco. Per la sua «Vita di Dante» (1802), il primo componimento di Manzoni pubblicato, Alla Musa (1802) e Alla sua donna (1802), ispirato all’«angelica Luigina» Visconti, di cui il poeta era innamorato. Toni alfieriani e pariniani pervadono anche l’ode Qual su le Cinzie cime (1802-3), i quattro Sermoni e l’idillio Adda, composto nel 1803 quando Manzoni invitò Monti nella villa del Caleotto.
Tra il 1805 e il 1806 Manzoni, giunto a Parigi dalla madre, compose i versi sciolti del Carme in morte di Carlo Imbonati. Il testo fu stampato a metà del 1806, ma le successive ristampe, a partire dal 1825, non furono mai approvate da Manzoni, che probabilmente sentiva di aver compiuto, con l’elogio al compagno della madre, uno sgarbo nei confronti del padre Pietro, che all’epoca era ancora in vita.
Al soggiorno parigino appartiene anche il poemetto mitologico Urania, steso tra 1808 e 1809 sotto l’influsso della Musogonia di Monti e della filosofia vichiana.
«Entrato un giorno nella chiesa di San Rocco, dopo affannosa preghiera, si levò da terra credente»: così l’abate Zanella descrisse l’intensa esperienza della conversione dell’amico Manzoni, che in realtà già dal 1809 si stava avvicinando al cattolicesimo, guidato dalle riflessioni giansenistiche del sacerdote Degola prima e del vescovo Tosi poi.
Tre anni dopo, nel 1812, Manzoni riprese la penna per avviare il ciclo degli Inni sacri, con i quali raggiunse il vertice della sua produzione poetica: il rifiuto del Classicismo e l’innovativa giustapposizione di toni aulici e umili conferiscono ai componimenti un tono di epica collettiva in cui la voce del poeta si confonde tra la moltitudine dei fedeli.
Progettati in numero di dodici, come le principali celebrazioni liturgiche, Manzoni portò a termine solo cinque inni. I primi quattro furono stampati a Milano per i tipi di Pietro Agnelli nel 1815: La Resurrezione, Il Nome di Maria, Il Natale e La Passione. La Pentecoste, iniziata il 21 giugno 1817 e interrotta dalla stesura dell’Adelchi e del romanzo, fu pubblicata a Milano nel 1822 da Vincenzo Ferrario.
Il sesto inno, Ognissanti, fu probabilmente iniziato intorno al 1830; Manzoni vi lavorò ancora nel 1847, senza però dare forma definitiva agli abbozzi.
Un inno non compreso nel progetto originario è Il Natale 1833, iniziato ma non concluso un anno dopo la morte della moglie Enrichetta Blondel e pubblicato postumo nel 1874.
Uscite a Milano nel luglio del 1819 per i tipi di Antonio Lamperti, le Osservazioni sulla morale cattolica furono il primo testo in prosa che Manzoni fece pubblicare. L’opera si presenta come una confutazione del capitolo CXXVII della Histoire des républiques italiennes du Moyen-Âge (1818) di Sismondi, che aveva accusato di corruzione la morale cattolica. A logica, retorica ed eloquenza Manzoni affiancò sapientemente exempla che, vivacizzando la narrazione, lasciano presagire la mano del romanziere. Lo stile dell’opera, innovativo rispetto alla tradizione apologetica, non mancò di suscitare l’interesse di Tommaseo, che così si espresse: «Da quella fede cordiale e sapiente, da quella potente e pensata semplicità, da quella verità di natura non soffocata dai molti accorgimenti dell’arte sentii spirare uno spirito nuovo di gioventù nell’ingegno». Nel 1855 Manzoni pubblicò una seconda edizione della Morale cattolica, arricchita dell’appendice Del sistema che fonda la morale sull’utilità.
Alla confutazione della concezione utilitaristica della morale e alla difesa della razionalità della religione è dedicato l’abbozzo della lettera, datata 12 novembre 1829, all’amico Victor Cousin. La lettera non fu però mai inviata e costò all’autore un grande sforzo compositivo, tanto che in alcuni punti fu rielaborata persino sei volte. Nel dialogo di stampo ciceroniano Dell’invenzione (1850) Manzoni, ispirato dalle riflessioni filosofiche di Rosmini, si dedicò invece all’indagine dell’arte, del potere conoscitivo del pensiero e della giustizia.
Con grande disappunto del vescovo Tosi, che avrebbe preferito che ultimasse la Morale cattolica, Manzoni iniziò nel 1816 la stesura della tragedia storica Il Conte di Carmagnola. Terminata l’anno successivo, l’opera fu pubblicata a spese dell’autore nel gennaio 1820 da Vincenzo Ferrario.
Il protagonista è un personaggio storico, Francesco di Bartolomeo Bussone, capitano di ventura dei primi del ‘400 che, dopo aver servito il duca di Milano, si arruolò nell’esercito dei nemici veneziani. In seguito alla vittoria veneziana della battaglia di Maclodio (1427), Carmagnola permise che i suoi soldati lasciassero liberi i prigionieri e non inseguì l’esercito vinto, destando così i sospetti del governo di Venezia che lo condannò a morte per tradimento. Secondo Manzoni, però, i Veneziani condannarono un innocente, dal momento che il comportamento del conte si era dimostrato coerente con il codice militare dell’epoca. Il Carmagnola, sacrificato in nome della corrotta ragion di Stato, assurge perciò a vittima della titanica lotta contro l’ingiustizia della società.
La tragedia, dedicata a Fauriel che la tradusse in prosa in francese, non ebbe grande fortuna di pubblico e suscitò le critiche dello scrittore francese Victor Chauvet, che rimproverò a Manzoni l’infrazione delle canoniche unità aristoteliche. In risposta Manzoni stese la Lettre à M.C. sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie, scritta nel 1820 ma pubblicata nel 1823.
La stesura della tragedia Adelchi, alla quale Manzoni aveva pensato durante il soggiorno parigino dall’ottobre 1819 al luglio 1820, illuminato dalla lettura delle opere di Thierry, si colloca tra il settembre di quell’anno e il maggio 1822. In due anni di intenso lavoro, interrotti dalla stesura dell’Introduzione e dei primi due capitoli del Fermo e Lucia, pur sofferente per i continui disturbi nervosi, Manzoni si dedicò anche al trattato storiografico Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia.
La vicenda, ambientata tra il 772 e il 774, ha come protagonista il principe longobardo Adelchi, personaggio scisso tra l’anelito alla giustizia e la consapevolezza di appartenere al popolo che sta opprimendo i Latini, i quali nel frattempo hanno invocato l’aiuto di Carlo, re dei Franchi. Come nei Promessi sposi, anche nell’Adelchi risuona vivo il monito manzoniano agli italiani i quali, «volgo disperso che nome non ha» proprio come i Latini, dovrebbero diffidare dell’aiuto straniero.
La protagonista femminile della vicenda è Ermengarda, sorella di Adelchi e moglie ripudiata di Carlo; insieme alla Lucia del romanzo, impersona l’ideale manzoniano della donna: pudica e riservata ma al contempo forte e volitiva. A Lucia ed Ermengarda Manzoni affidò la fisionomia spirituale di Enrichetta, cui dedicò l’Adelchi, nominandola con il solo cognome di nascita, quasi a non intaccarne l’individualità: «Enrichetta Luigia Blondel la quale insieme con le affezioni coniugali e con la sapienza materna poté serbare un animo verginale».
La canzone Aprile 1814 fu composta tra il 22 aprile e il 12 maggio 1814 (fu poi pubblicata incompiuta da Bonghi nel 1883) in seguito all’impresa, miseramente fallita, degli «Italici puri» che, guidati da Federico Confalonieri, lottarono per l’indipendenza della Lombardia.
Alla dominazione straniera tentò di ribellarsi anche Gioacchino Murat che, il 15 marzo 1815, dichiarò guerra all’Austria, invocando l’aiuto degli italiani in vista dell’unificazione nazionale. Sconfitti dagli austriaci a Tolentino, i napoletani furono però costretti ad accettare il ritorno di Ferdinando IV di Borbone, che fece fucilare Murat in ottobre. Appena saputa la notizia del proclama di Murat, Manzoni compose Il proclama di Rimini, interrotto in seguito al fallimento dell’impresa. Come ricordò Cantù, Manzoni stesso riconobbe lo scarso livello poetico della canzone e soprattutto del v. 34 («Liberi non sarem se non siam uni»), in riferimento al quale avrebbe detto: «Io e Mazzini abbiam avuto sempre fede nella indipendenza d’Italia, compiuta e assicurata con l’unità. In questa unità era sì grande la mia fede, che le ho fatto il più grande de’ sacrifizi, quello di scriver scientemente un verso brutto».
Nella primavera del 1821, quando gli austriaci repressero le rivolte liberali milanesi e intellettuali come Confalonieri, Pellico e Berchet furono arrestati, Manzoni compose l’ode Marzo 1821 dedicandola, pur senza diffonderla, a Teodoro Koerner, il «Mameli dei Tedeschi», che il poeta riteneva erroneamente caduto durante la battaglia di Lipsia.
Napoleone morì a Sant’Elena il 5 maggio 1821, ma Manzoni apprese la notizia dalla «Gazzetta di Milano» solo il 16 luglio, mentre era a passeggio con la moglie e la madre nel parco di Brusuglio.
Come raccontò a Cristoforo Fabris, Manzoni sentì i versi «nascere sotto i piedi» e in tre giorni compose l’ode, in compagnia di Enrichetta che suonava il pianoforte.
Consapevole della difficoltà di ottenere l’approvazione della censura austriaca, Manzoni inviò due copie manoscritte all’ufficio di Polizia: una copia gli fu come previsto restituita con l’invito a non pubblicarla, l’altra fu invece trafugata e fatta circolare clandestinamente a Milano prima, poi in tutta Italia e infine all’estero. Nonostante il parere contrario di Manzoni, furono proprio i suoi ammiratori a copiare, pubblicare e diffondere l’ode, che fu tradotta in tedesco da Goethe.
La prima edizione approvata da Manzoni si legge nell’ultimo fascicolo delle Opere varie, stampate a Milano tra il 1845 e il 1855.
Durante la laboriosa operazione di revisione, il romanzo subì profondi mutamenti, sia dal punto di vista strutturale che linguistico. Nel Fermo e Lucia, infatti, la narrazione procedeva per blocchi alternati, presentando prima tutte le avventure di Lucia e poi tutte quelle del suo promesso sposo Fermo (nome poi mutato in Renzo); già a partire dalla “seconda minuta”, invece, le vicende dei due giovani si incastrano tra loro in una struttura narrativa più elaborata.
Sul versante linguistico si colgono nei Promessi sposi del 1825-’27 (la cosiddetta Ventisettana) i primi frutti dello studio compiuto da Manzoni sul Vocabolario della Crusca e, soprattutto, dello spoglio di quegli autori cinque, sei e settecenteschi che gli fornirono esempi di un toscano medio e il più prossimo possibile al parlato.
Il 15 giugno del 1827 vennero distribuiti, per i tipi di Vincenzo Ferrario, i tre tomi del romanzo intitolato definitivamente I Promessi sposi. Storia milanese del secolo XVII scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni. Fu un successo immediato, e la fama di Manzoni divenne presto internazionale, grazie alle traduzioni, già dal 1828, in francese, tedesco e inglese.
Ultimata la pubblicazione, Manzoni ebbe cura di mandare all’amico Vincenzo Monti, ormai gravemente malato, una delle prime copie della sua «cantafavola»; il commento del «Cigno divin» fu breve ma quanto mai icastico: «Vorrei esserne io l’autore».
Seppure migliorata rispetto a quella del Fermo e Lucia, la lingua della Ventisettana era ancora una lingua imparata sui libri: fu infatti soltanto nell’estate del 1827 che Manzoni poté finalmente partire per la Toscana e «far faccia tosta» con i fiorentini.
A Firenze iniziò la revisione della «dicitura» del suo «ennuyeux fatras»: è il periodo della celebre «risciacquatura» delle «settantun lenzuola» del romanzo in Arno, aiutato dai solerti esperti di lingua Cioni e Niccolini, «lavandaie [che] fuor di qui, non le trovo in nessun luogo».
Tornato a Milano il 7 ottobre 1827, Manzoni rallentò la correzione dopo la morte di Enrichetta e di Giulietta; riprese poi tra il 1838 e il 1839, incoraggiato anche dalla seconda moglie Teresa Borri. Non avendo a disposizione la viva voce dei fiorentini, Manzoni si servì della collaborazione di Emilia Luti, istitutrice fiorentina di casa D’Azeglio, e del genero Bista Giorgini.
La correzione linguistica terminò nel 1840, quando uscirono le prime dispense dell’edizione definitiva, illustrata dalle tavole di Francesco Gonin onde evitare la diffusione di copie non autorizzate. La pubblicazione della cosiddetta Quarantana si concluse nel novembre del 1842 con l’uscita della Storia della Colonna infame, un pamphlet sui processi agli untori svoltisi a Milano dopo la peste del 1630.
Nonostante il successo riscosso, nel discorso Del romanzo e in genere de’ componimenti misti di storia e invenzione (1845), Manzoni, sempre più influenzato dalla filosofia rosminiana, riconsiderò criticamente il genere romanzesco, troppo ricco di invenzione e per questo poco adatto alla ricerca del «vero positivo».
Fino a che il tanto agognato viaggio a Firenze non fu possibile, Manzoni cercò il materiale per «bene scrivere» tra le pagine di «scrittori di lingua» di ogni secolo, soprattutto cinquecenteschi e settecenteschi, cercando di trovarvi quell’«aria domestica» che tanto mancava al suo romanzo.
Lo studio della lingua procedette quindi sui libri e, in attesa del riscontro con la viva voce dei fiorentini, Manzoni studiò e spogliò testi di autori che non costituiscono, tolti alcuni grandi nomi, i vertici della letteratura. Durante l’avida lettura delle opere di questi autori – per lo più comici del ‘500 come il Lasca, Lippi, Cecchi, Buonarroti il giovane, D’Ambra, Varchi, Gelli e, per il ’700, Fagiuoli – Manzoni, con l’aiuto di Grossi (che nel frattempo si era trasferito nella casa di via del Morone), procedette a sottolineare espressioni, frasi idiomatiche e termini che meglio gli sembrava riproducessero il toscano parlato: gli fu così possibile utilizzare quanto appreso per postillare il Vocabolario degli Accademici della Crusca (1806-1811) compilato da Antonio Cesari e dai suoi colleghi puristi, «conciato in modo da non lasciarlo vedere».
Nel 1835 Manzoni iniziò, dapprima con Grossi e in seguito solo, il trattato noto con il titolo Sentir messa. Lo scritto, rimasto inedito, era volto a difendere il Marco Visconti, romanzo pubblicato da Grossi con gran successo di pubblico. L’opera aveva però destato le critiche del grammatico piemontese Michele Ponza, il quale riteneva che Grossi avesse abusato di forme lombarde, come appunto «sentir messa» in luogo di «udire». Grazie agli spogli di testi toscani, Manzoni e Grossi poterono con orgoglio difendere l’espressione in questione che, lungi dall’essere un mero dialettismo, si rivelava indicatrice di una preziosa concordanza tra lombardo e toscano.
L’«eterno lavoro» di Manzoni fu però il trattato Della lingua italiana, al quale lavorò dal 1830 e per oltre tre decenni, arrivando alla stesura di ben cinque redazioni, delle quali nessuna fu pubblicata. Manzoni iniziò a lavorare ai primi due libri (sulla natura delle lingue e su «quale sia la vera lingua italiana»), mentre nulla possediamo del terzo libro, che doveva riguardare «come aver da essa quegli effetti che si hanno e che si vogliono da una lingua, e in ragion de’ quali una lingua italiana si vuole e si dee volere». Nella seconda redazione, Manzoni analizzò alcuni dei «sistemi», come quello di Antonio Cesari, nel tempo costruiti per risolvere l’annosa questione della lingua.
Gli scritti linguistici licenziati da Manzoni si collocano tutti dopo la pubblicazione della Quarantana, manifesto palese delle sue scelte linguistiche, orientate alla resa del fiorentino parlato dalla media borghesia.
Il primo testo è la lettera-trattato al lessicografo piemontese Giacinto Carena del 26 febbraio 1847, pubblicata però tre anni dopo. Per la prima volta, qui Manzoni affermò esplicitamente che il modello della lingua comune italiana doveva essere il fiorentino vivo.
Al 1868 risale la relazione al ministro della pubblica istruzione Emilio Broglio Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla, testo nel quale Manzoni, senatore e capo della commissione incaricata della diffusione della lingua unitaria, prospettò il progetto di stesura del Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze, la cui compilazione iniziò nel 1870 per concludersi solo nel 1897. In seguito Manzoni aggiunse alla relazione un’Appendice nella quale tornò a difendere le ragioni storiche della scelta del fiorentino. Sempre nel 1868 Manzoni pubblicò, sul giornale «La Perseveranza» di Ruggero Bonghi, la lettera De vulgari eloquio (sull’interpretazione della teoria linguistica dantesca) e la Lettera intorno al Vocabolario.
L’ultimo scritto edito è la lettera al napoletano Alfonso Della Valle di Casanova del 30 marzo 1871, nella quale Manzoni approvò il progetto di Casanova di pubblicare un raffronto commentato delle correzioni apportate alla Ventisettana.
Migliaia sono le lettere scritte da Manzoni durante la sua lunga vita alla madre, ai figli, agli amici e ai colleghi letterati italiani o europei. Il carteggio certamente più cospicuo è quello con Claude Fauriel, uno dei più illustri tra gli italianisants parigini, amico di Giulia Beccaria e maestro e padre culturale di Manzoni.
Il folto epistolario ci consegna anche un’immagine privata, e talvolta autoironica, di Manzoni uomo, marito e padre. Aneddoti quotidiani, richieste di libri, di manoscritti, ma anche di piante e sementi per la villa di Brusuglio, si intersecano tra loro nelle pagine di lettere che raccontano una vita intera.
Numerosissime sono poi le lettere che aprono uno scorcio sul laboratorio creativo di Manzoni, raccontando per esempio le travagliate fasi della revisione linguistica del romanzo. Rossari, Grossi, Cioni, Niccolini, Giorgini (per citarne solo alcuni) furono i testimoni privilegiati del percorso che avrebbe portato a perfezione I Promessi sposi, e non raramente furono interpellati da Manzoni in caso di dubbio, anche soltanto per sapere se «Il termine comune o prevalente in Firenze, è Orologiere, Orologiaro o Oriolaio?» (così si legge in uno dei biglietti che Manzoni scriveva quasi ogni giorno a Bista Giorgini).